SI E’ TORNATI A BALLARE ED A CANTARE!

Dopo gli anni segnati dalle restrizioni a causa delle disposizioni preventive contro il diffondersi del Corona Virus, l’estate 2022 è trascorsa all’insegna del ritorno dei giovani e dei meno giovani della voglia di ballare e di cantare tutti e tutte insieme. Il ritorno degli eventi off line ha giovato, in particolare, ad uno dei settori maggiormente penalizzato, ovvero quello della musica dal vivo e dell’intrattenimento.

Un settore davvero importante quello di cui stiamo parlando, come descrivono i dati (che come accade spesso nelle attività culturali non sono immediatamente ricavabili dalle informazioni statistiche standard ma devono essere ricostruite ad hoc), i quali stimano un totale di circa 72mila addetti alle imprese (0,4% degli addetti nazionali) a fronte di un valore aggiunto di 2,3 miliardi di euro (0,3% del totale nazionale)[1] per un impatto totale di circa 3,4 miliardi di euro[2], ovvero  il 16% del PIL come descritto nel report “Io sono cultura” di Symbola riferito al 2017[3]. Da tener conto, inoltre, ci sono i numeri che rappresentano l’indotto dei concerti e soprattutto dai festival sui territori in cui essi vengono realizzati. Potremmo fare di questo diversi esempi, come il caso dei 36,5 milioni di euro che il Firenze Rocks 2019, ad esempio, aveva portato, nonché i suoi 15.500 spettatori i quali, già che c’erano, visitarono almeno un museo o altro luogo di cultura. Oppure dalla ricaduta economica sul territorio di 32 milioni di euro generata dalle ultime edizioni di Movement Torino Music Festival e Kappa FuturFestival. O anche l’indotto di 500 milioni di euro ottenuto grazie all’incremento di incassi e di pubblico (+8,56% delle presenze sul 2018) che aveva raggiunto l’Arena di Verona Opera Festival[4]. Tutte cifre queste che, purtroppo, in Italia sia politici che opinione pubblica tendono a trascurare. Un settore, quindi, forse sottovalutato quello della musica dal vivo e dell’intrattenimento che di sicuro in questi mesi estivi ha vissuto una ripartenza radicale anche rispetto anche lo scorso autunno-inverno, periodo in cui il Consiglio dei Ministri aveva concesso il via libera per la riapertura delle attività culturali, sportive e ricreative, tra le quali anche di discoteche e locali notturni, bensì stabilendo rigide precauzioni. Tra queste possiamo ricordare gli obblighi: di capienza dei locali imposto al 50% nei luoghi chiusi ed al 75% per gli spazi aperti; dell’uso di mascherine in fila per i servizi, tra cui toilette e bar, ma non in pista da ballo perché equiparato ad attività fisiche al chiuso; di verifica del possesso del Green pass, sia per gli spazi al chiuso sia per quelli aperti, verificato dagli addetti alla sicurezza all’ingresso. A proposito di queste disposizioni Antonio Flamini, Presidente di Silb Roma (Associazione Italiana Imprese da Ballo e di Spettacolo) dichiarava come, nonostante le norme fossero state da tutti e tutte recepite e messe in pratica, rimanevano non poche le perplessità che le norme vigenti lasciavano agli addetti. Per questo motivo tutti uniti (o quasi) multinazionali ed indipendenti, hanno sollecitato l’allora Presidente del Consiglio Mario Draghi, affinché la ripartenza non avvenisse a step, bensì immediatamente al completo, come già accadeva nello stesso periodo in Paesi come Austria, Belgio, Canada, Danimarca, Francia, Inghilterra, Israele, Lettonia, Lituania, Olanda, Stati Uniti, Svizzera ed Ungheria[5]. Sia produttori di musica live che Associazioni di categoria (tra cui ad esempio Assomusica) invitavano, infatti, il Governo a riaprire col 100% della capienza, nel tentativo di risollevare un settore che era drasticamente finito in ginocchio.

Le ricerche dimostrano, però, come lo spettacolo dal vivo e l’intrattenimento siano stati i settori di attività più duramente colpiti dalle chiusure totali e dalle riaperture contingentate a causa della pandemia[6]. Il network Live DMA, sulla base dei dati raccolti presso i propri 2.600 membri, ha stimato che nel 2020 le strutture per la musica dal vivo europee abbiano perso, ad esempio, 1,2 miliardi di euro di ricavi a causa dell’annullamento o dello slittamento di almeno 284mila eventi e concerti. Cifre che portano a ritenere che ci sia stata una flessione del pubblico pari a 53 milioni di spettatori in meno, nonché un crollo del fatturato pari al 64% su base annua: dalla sola vendita di biglietti si sarebbero persi circa 496 milioni di euro e dalla mancata vendita di cibi e bevande la perdita dovrebbe aggirarsi attorno ai 521 milioni di euro. Tutto questo ovviamente si è tradotto in una riduzione del 70% di quanto corrisposto agli artisti oltre che in irreversibili licenziamenti e fallimenti[7].

La medaglia come sempre neanche in questa occasione non ha avuto solo una faccia. Durante questo periodo di epocali cambiamenti, infatti, si sono anche verificati casi di coloro i quali hanno approfittato della contingente pausa per gli eventi live per rivedere le proprie attività scoprendo, ad esempio, l’impatto positivo che le nuove tecnologie ed il digitale possono avere anche su questo settore. Molti del comparto musicale hanno, in primo luogo, recuperato consistenza grazie allo streaming audio e video, reso possibile dalla grandissima diffusione degli smartphone. Inoltre, c’è stato anche chi ha sperimentato altre formule di innovazione attraverso ad esempio i nuovi media: alcuni artisti hanno puntato a diventare influence o testimonial di produzioni mirate attraverso Istagram e Tik Tok[8]; altri hanno puntato sulla creazione di un loro canale Twitch, una piattaforma che si presta a monetizzare, sia attraverso la gente invia soldi direttamente, che attraverso l’uso di pubblicità commerciale[9]. C’è stato anche chi si è ripensato attraverso idee meno virtuali, ad esempio, come chi ha diversificato le proprie modalità di guadagno introducendo formule di vendita di merchandising oppure come il caso del gruppo degli addetti ai lavori legati a diverse società specializzate in produzione di eventi (Utopia, Zoo, Italstage e 3D Unfold), i quali hanno realizzato il progetto “Live Drive In” allo scopo di far assistere agli spettacoli ciascuno dalla propria auto, in spazi abbastanza larghi o mini-tribune separate, il tutto realizzato grazie all’utilizzo di megaschermi e palcoscenici dotati di generatori ad energia rinnovabile, di bagni auto-igienizzanti ed solo con l’uso di materiali ecosostenibili[10]. Eppure, dopo ben due lockdown alle spalle, riteniamo che la vera ripresa del settore ci sia stata quest’estate, in cui, finalmente, si è potuti tornati alla vera movida, ovvero a ballare e a divertirsi senza dover per forza stare seduti e senza nessuna distanza di sicurezza da mantenere. I numeri ed i fatti che abbiamo descritto, però, dovrebbero portarci ora ad insistere per fare un ben più importante e radicale cambiamento: bisognerebbe, cioè, iniziare a lavorare per far sì che gli italiani non considerino più irrilevanti cultura e spettacolo, magari facendo presente che l’arte e la musica, rappresentano una leva per l’aumento del benessere e dell’economia del nostro Paese.

Per completare l’analisi del tema dell’articolo abbiamo intervistato per voi due persone autorevoli impegnate nel settore della musica dal vivo e dell’intrattenimento:

Demetrio Chiappa, Presidente di Doc Servizi;

Francesca Martinelli, Direttrice – Fondazione Centro Studi Doc;

Edoardo Mazzilli, Imprenditore creativo, Event Manager e DJ.

1- Che ruolo riveste nella società il settore della musica dal vivo e dell’intrattenimento (sia a livello qualitativo che quantitativo ad esempio in termini di fatturato etc.)?

Demetrio Chiappa: “L’importanza di questo settore va ben oltre i numeri e le stime. Potremmo dire, infatti, che non si può vivere senza musica. La musica nella vita è vitale. Ognuno ha i suoi ritmi e la sua musica. Ed è per questa ragione che, sempre di più, la musica diventa uno strumento di marketing fondamentale anche per le aziende: ci sono aziende che si riconoscono, infatti, grazie ai suoni. Un esempio eclatante di questo è Netflix. Anche durante la pandemia la musica non si è arrestata. Perfino i balconi delle case sono finiti per diventare i palcoscenici in cui gli artisti hanno messo in scena i loro eventi musicali durante il lockdown. Quello che però molti trascurano è che l’industria della musica e degli eventi non è composta solo dagli artisti o dai tecnici della musica. Ci sono, infatti, tantissime figure collegate e necessarie, come il social media manager, i fotografi, l’ufficio stampa, e tanti altri ancora. In particolare, sono i creativi ad essere sempre più importanti per la vita di questo settore. I creativi ormai sono presenti in ogni ambito di impresa e della vita. La creatività è intrisa in tutti i settori dell’economia; per questo è tempo di eliminare la barriera che fino ad ora è esistita tra creativi e altri settori. Per non contare che l’Italia è sorta proprio sulle fondamenta della creatività”.

Francesca Martinelli: “Prima del 2019, la musica dal vivo impiegava circa 31 mila concertisti e orchestrali[11] e produceva all’incirca 1,5 miliardi di euro di volume d’affari[12]. Se consideriamo anche l’indotto, il volume d’affari si avvicinava ai 3,5 miliardi di euro[13]. Della musica dal vivo fanno parte la lirica, i concerti (classica, jazz, popolare), i concerti nei locali e all’aperto, tutte opportunità di socialità e arricchimento culturale che facevano parte della quotidianità degli italiani, abituati a spendere 72,5 miliardi di euro all’anno in attività di cultura e spettacolo, pari al 6,7% della spesa complessiva delle famiglie italiane nel 2019[14]”.

Edoardo Mazzilli: “In tutto il mondo il settore dell’intrattenimento e della musica dal vivo è importantissimo. Purtroppo in Italia non è considerato come all’estero per la sua importanza e la cosa sta peggiorando sempre di più.

2- Cosa hanno causato alle attività imprenditoriali di questo le disposizioni contro il diffondersi del Corona Virus?

Demetrio Chiappa: “La pandemia ha causato in molti casi il cambiamento del proprio lavoro per molti lavoratori del settore. Questo ha inevitabilmente portato alla chiusura di alcune imprese. Ma gli effetti per i nostri soci non sono stati solo negativi. Col nostro sostegno, ad esempio, molti sono riusciti a trovare lavori alternativi. Inoltre ci sono stati gli aiuti elargiti dal pubblico che hanno garantito un guadagno sicuro per durante i mesi del lockdown e della chiusura degli eventi dal vivo. Inoltre, degna di nota è stata la maggiore cooperazione che abbiamo visto esserci tra i nostri soci”.

Francesca Martinelli: “Com’è noto, l’impatto della pandemia legata al Covid-19 è stato particolarmente forte per i settori che basano la propria attività sull’organizzazione di eventi, com’è il caso della musica dal vivo. A causa delle chiusure obbligate e continue, il settore ha subito tra il 2019 e il 2020 una contrazione del 90% rispetto alla fruizione dei concerti dal vivo . Questa situazione ha portato a una perdita di 3/5 del fatturato, pari a circa 700 milioni di euro  nella musica live e a un terzo dei musicisti (32,5%)  che tra il 2019 e il 2020 ha smesso di lavorare nel settore, pari a circa 10 mila lavoratori in meno. Allo stesso tempo, la maggior parte dei tecnici dello spettacolo che ha lasciato il settore tra il 2019 e 2020 erano occupati nel settore della musica live, con un quinto che ha abbandonato per cambiare professione”.

Edoardo Mazzilli: “A me nello specifico la pandemia del Corona Virus ha causato moltissimi danni. In Italia però le conseguenze negative hanno riguardato più o meno tutti, e questo più che altri Stati perché c’è stata una vera e propria politica del terrore. Bloccando le attività da un momento all’altro non ci è stata data la possibilità di pagare i debiti che normalmente si fanno per mantenere le attività dei concerti e dei locali, come i fornitori. Questo è stato deleterio, non poteva succederci niente di peggio”.

3- C’è stato un miglioramento dopo le aperture della stagione autunno inverno dello scorso anno oppure le restrizioni minavano in ogni modo lo svolgimento delle attività culturali e ricreative?

Demetrio Chiappa: “La chiusura data dalla pandemia ha ovviamente generato momenti di grande tensione e drammatici. I primi a chiudere e gli ultimi ad aprire, e lo dico senza giudicare le scelte fatte perché è stato un periodo davvero complesso. E’ da considerare però che l’Italia viveva una situazione diversa da altri Paesi, poiché per esempio era stata la prima ad essere colpita dalla pandemia. Questo ha portato a dover fare scelte molto complesse, forse impopolari, che però dovevano essere fatte. C’è stato chi poi ha approfittato di questo periodo di vero trauma per commentare e criticare la politica. Ma i danni in verità ci sono stati ovunque e non si poteva fare di più di quello che è stato fatto”.

Francesca Martinelli: “Nonostante anche nel 2021 ci siano state numerose chiusure a causa della pandemia, le misure di contrasto alla stessa, quali zone colorate, allentamento delle misure di contenimento soprattutto nella seconda parte dell’anno e introduzione del green pass, hanno permesso di riprendere almeno parzialmente le attività nel settore. L’impatto della pandemia è restato però molto importante, perché le restrizioni sul numero di accessi, l’impossibilità di organizzare determinati eventi (es. concerti di grandi dimensioni o eventi come il Capodanno) e, per un certo periodo, anche di servire cibo e bevande durante i concerti, hanno pesato notevolmente sull’intero comparto, dimezzando ancora il fatturato delle imprese nel 2021 rispetto al 2019 e lasciando molti lavoratori a casa”.

Edoardo Mazzilli: “I miglioramenti con le aperture ci sono stati per forza di cose. Aprire è sicuramente meglio di dover tenere chiusi i locali e non poter fare eventi dal vivo. Il problema però è che non è stata una riapertura fatta con le dovute precauzioni, quindi, c’è chi ne ha goduto di più e chi di meno. In particolare, sono stati avvantaggiati coloro i quali avevano la possibilità di svolgere le loro attività grazie alla presenza di tavoli all’aperto. Molti locali, come il mio, che erano solo al chiuso sono stati penalizzati anche nel periodo delle riaperture rispetto a chi aveva un locale con aree esterne. La conformazione fisica della proprietà ha giocato, perciò, un ruolo determinante rispetto alla riapertura”.

4- Può citarmi dei casi in cui sono state realizzate innovazioni o miglioramenti alle attività imprenditoriali del settore approfittando del periodo di pausa dato dalla chiusura dei locali e degli eventi dal vivo?

Demetrio Chiappa: “Come doc Servizi durante il periodo di pandemia abbiamo deciso di profilare e mappare tutte le competenze e le skills dei nostri soci ed inserirle all’interno di un sistema informatico interno che ci permette di conoscere i nostri soci interamente. E’ così che abbiamo scoperto nuovi talenti ed abbiamo potuto ampliare le nostre offerte di servizi. Il nostro scopo è stato quello di far tesoro della crisi che abbiamo superato per non doverne più subire altre. Quella collegata alla diffusione del Covid-19, infattim, non è che una delle prime di una lunga serie che ci toccherà attraversare. Quello che abbiamo imparato è che il modello cooperativo può rappresentare un’importante leva per superare i momenti critici”.

Francesca Martinelli: “Il periodo di fermo ha portato il settore a dover ragionare su sé stesso e comprenderne meglio limiti e opportunità. Una delle innovazioni che ha portato il lockdown è sicuramente stata quella del digitale, un terreno poco percorso in precedenza ma che ha portato a nuove sperimentazioni, ad esempio, con locali e festival che hanno organizzato concerti in differita o che hanno sfruttato il web per creare nuovi legami con il pubblico. Quando gli eventi sono ricominciati, nuove tecnologie sono state introdotte anche per la gestione degli ingressi in modo da ammortizzare l’ulteriore costo di gestione legato al monitoraggio di green pass e assegnazione dei posti in modo da avere il giusto distanziamento. Oltre alla tecnologia, in assenza dei grandi concerti, abbiamo anche visto una maggiore diffusione di tipologie di eventi su piccola scala ma fortemente innovativi oltreché eco-compatibili, come percorsi nella natura con più performance o concerti pensati apposta per assistervi in bicicletta”.

Edoardo Mazzilli: “Io ho dovuto chiudere il mio locale durante la pandemia del Covid-19 e quindi non ho potuto fare miglioramenti o innovazioni”.

5- Questa estate abbiamo assistito alla riapertura dei locali notturni e la possibilità di realizzare eventi live. In che modo le attività dalla musica dal vivo e dei locali notturni hanno risentito di questi cambiamenti? Ci sono stati evoluzioni positive (ad esempio di fatturato, di impiego o altro)?

Demetrio Chiappa: “Il fatturato sta tornando al 2019. I miglioramenti sono stati tali da portarci a cambiare struttura ed organizzazione interna: ora siamo noi che portiamo lavori ai soci e non viceversa”.

Francesca Martinelli: “Sicuramente alcune forme di ottimizzazione per la gestione delle pratiche legate al Covid-19 sono state utilizzate anche per meglio gestire le attività imprenditoriali in seguito. Molti dei locali che sono riusciti a sopravvivere al terribile impatto della pandemia sono quelli che hanno differenziato la loro attività e stretto partenariati con altre realtà, creando reti. Ciò non toglie che la stagione estiva appena trascorsa sia stata molto complicata. La grande perdita di personale subita dal settore a causa della pandemia ha fatto soffrire molto il mondo della musica live portando a non poche difficoltà organizzative legate tanto alla carenza di personale quanto all’ingresso di nuovo personale meno qualificato del precedente. Nei due anni di pandemia è anche cambiato molto il modo in cui si fruisce della musica dal vivo, soprattutto da parte delle nuove generazioni, e gli imprenditori del settore stanno ancora analizzando i nuovi comportamenti”.

Edoardo Mazzilli: “In Italia tutti quelli che, al contrario mio, non hanno dovuto chiudere le loro attività durante il periodo di lockdown, hanno potuto riaprire senza nessuna condizione. Questo ha portato molto caos: pochi incassi, molte spese, bassa qualità delle offerte sul mercato, fattore legato alla mancanza di capitale da investire che non è stato possibile avere a causa del precedente periodo di mancato lavoro. In più, a differenza di quanto gli slogan della pandemia dicevano, non si è usciti dalla crisi migliori. La nuova organizzazione del settore della musica dal vivo e dell’intrattenimento è stata fatta, infatti, a ribasso, nel tentativo di colmare i mancati guadagni del periodo di fermo delle attività. Questo è accaduto sia dal punto di vista del ristoro, che dal punto di vista del costo dei biglietti, i quali hanno finito per lievitare drasticamente, così come è successo per il costo degli artisti e delle agenzie. Inoltre, ritengo che il pericolo sia ancora dietro l’angolo. Ora, infatti, che è estate tutti e tutte hanno voglia di uscire e vivere gli eventi e i locali aperti, ma sicuramente ci sarà un altro periodo di chiusura che ci mostrerà chi sopravvivrà anche a questo e chi no. Il problema vero è che, spesso, chi ce la fa non è detto che rimanga sul mercato perché è bravo. A volte sopravvive chi semplicemente ha maggior capitali da investire rispetto ad altri. Questa pandemia sta, quindi, portando a galla moltissime ingiustizie, evidenziando quelle che già esistevano e creandone di nuove. Tutto è in particolar modo legato ai i soldi: persone validissime non potranno più rimettersi in piedi nonostante le loro capacità, come nel mio caso, che ho dovuto chiudere un locale in cui avevo investito tutto. Molti posti speciali hanno vissuto la mia stessa brutta sorte e purtroppo non apriranno più portando una perdita anche alla nostra società”.

6– In che modo Doc Servizi si è mossa per tutelare le imprese, nonché i lavoratori e le lavoratrici di questo settore? Ha messo in pratica qualche buona pratica che può citare?

Demetrio Chiappa: “In generale posso dire che è stata dimostrata l’importanza di essere organizzati e di avere al nostro interno competenze professionali elevate sia per quanto riguarda il rapporto tra le persone, i bilanci di competenza, le analisi dei business plan, etc.

Nonostante questo, però, continuiamo ad essere caratterizzati da una gestione orizzontale e soprattutto dall’investimento sulle persone, sui soci, sulle loro competenze e professioni e sulle loro passioni oltre che sulle loro capacità. E’ per questo che facciamo molta formazione al nostro interno”.

Francesca Martinelli: “Ora che ci troviamo a freddo rispetto allo scoppio della pandemia possiamo dire che Doc Servizi ha risposto con prontezza alla difficile situazione. La sua risposta si è divisa principalmente in tre azioni. La prima è stata il sostegno all’azione di lobby della Fondazione Centro Studi Doc a favore dei lavoratori dello spettacolo, che è diventata involontariamente uno dei loro portavoce presso il governo italiano dopo aver lanciato la petizione “#nessunoescluso Appello urgente per sostegno ai lavoratori dello spettacolo”. L’attività di lobby ha portato al riconoscimento dei bonus per i lavoratori dello spettacolo, per un totale di 80.000 persone che hanno ricevuto dal Governo 640 milioni di euro. La seconda è stata l’azione come rete di sicurezza per i lavoratori dello spettacolo, supportandoli attraverso assistenza h24, opportunità di formazione, informazione costante sull’evoluzione delle normative, profilazione delle competenze per capire se i lavoratori potessero essere ridirezionati in settori meno colpiti dalla crisi. La terza azione invece è stata un’importante revisione dell’organizzazione interna per reagire prontamente agli effetti della crisi che ha portato a rivedere l’intero organigramma funzionale con l’introduzione di nuove figure, nuovi progetti e nuovi strumenti per la gestione al meglio delle attività”.

7- Rispetto alle altre imprese del settore le cooperative socie di Doc Servizi come hanno reagito al periodo Covid-19 e post restrizioni?

Demetrio Chiappa: “La profilazione i soci ci ha permesso di comprendere meglio le competenze di ciascuno dei nostri soci e confrontarle con gli altri ambienti. Grazie a questo importante lavoro abbiamo, quindi, cercato di indirizzare le persone a lavorare in altre situazioni in cui poteva servire il loro intervento. In questo modo siamo riusciti a mantenere le persone al lavoro nonostante il periodo di pausa. Ed oltre il lavoro per i nostri soci abbiamo lottato per garantire più tutele per tutti e tutte. Gli intermittenti dello spettacolo, infatti, non erano figure conosciute dal governo, il quale ignorava prima perfino quanto fosse grande il bacino di utenza dello spettacolo. I nostri soci si sono sentiti protetti da Doc Servizi e così anche i collaboratori. Questi ultimi, infatti, non sono stati licenziati ma messi in cassintegrazione. Grazie a questa scelta oggi, con la ripresa del settore, abbiamo potuto rintegrarli tutti. E finalmente siamo felici del fatto che stiamo tornando a fare grandi numeri non solo in termini di eventi, ma anche in termini di fatturato”.

Francesca Martinelli: “A causa degli effetti da pandemia Covid-19, nel corso del 2020 la Rete Doc nel complesso ha perso il 52% del fatturato rispetto al 2019. Ovviamente la cooperativa che ha sofferto di più è stata Doc Servizi, dato che opera nello spettacolo e nel turismo, con una perdita del 60% rispetto al 2019. Operando prevalentemente nel settore spettacolo ed eventi, hanno sofferto un calo di fatturato attorno al 24% anche le cooperative STEA, che gestisce la sicurezza negli eventi, e Doc Educational, dedicata al mondo dell’insegnamento delle materie artistiche e della formazione, le cui difficoltà sono però state mitigate dalla possibilità di effettuare lezioni anche in modalità videoconferenza. In controtendenza invece l’attività delle cooperative Doc Creativity e Hypernova dato che i soci lavorano nell’ambito del digitale e delle nuove tecnologie, che hanno visto una crescita attorno al 2,5%. In sintesi, si può dire che il sistema ha tenuto perché le cooperative meno orientate verso il settore dello spettacolo e degli eventi hanno risentito in misura molto inferiore della crisi pandemica, registrando nel 2020 flessioni di fatturato relativamente contenute, e hanno potuto così sostenere le realtà maggiormente colpite dagli effetti della pandemia”.

Elisa Badiali

[1] http://www.irpet.it/wp-content/uploads/2022/04/nota-1_2022-osservatorio-regionale-della-cultura.pdf
[2] http://www.centrostudidoc.org/2020/02/14/tra-i-3-e-i-5-miliardi-limpatto-del-sommerso-nella-musica-live-secondo-il-centro-studi-doc/
[3] https://www.rockit.it/articolo/tutti-numeri-crisi-mercato-musicale-qualche-idea-ripartire
[4] https://www.symbola.net/approfondimento/musica-covid19/
[5] https://www.rockit.it/articolo/musica-dal-vivo-tempo-gradualita-purtroppo-finito
[6] http://www.irpet.it/wp-content/uploads/2022/04/nota-1_2022-osservatorio-regionale-della-cultura.pdf
[7] https://businessweekly.it/notizie/concerti-e-musica-dal-vivo-i-numeri-dellimpatto-covid/
[8] https://www.symbola.net/approfondimento/musica-covid19/
[9] https://www.symbola.net/approfondimento/musica-covid19/
[10] https://www.symbola.net/approfondimento/musica-covid19/
[11] INPS.
[12] SIAE.
[13] elaborazione su base di calcolo indotto CERVED, pari 1,2 euro per 1 euro.
[14] Federculture.


Il Cortometraggio Come Mezzo Di Inclusione

Pian piano anche le mode, le arti, le passerelle, lanciano sempre più messaggi di inclusività, abituando gli occhi e la mente delle persone a guardare ad un mondo che prima molti percepivano come estraneo, adesso tendono ad includerlo nel loro, come parte integrante di questa società.

Tuttavia la strada è ancora lunga e le barriere da abbattere sono ancora tante.

Oggi vorrei soffermarmi sull’inclusione delle persone con disabilità. Ne abbiamo viste alcune su prestigiose passerelle ed anche ruoli di persone con disabilità nel cinema.

In particolare, vi parlo della mia recente esperienza come attrice protagonista del cortometraggio “Medea” dell’Accademia delle belle arti di Foggia, che ha accolto la proposta di un suo giovane studente, Giuseppe Arcieri, che in occasione della sua laurea ha voluto proporre al suo professore relatore e responsabile del progetto, la rivisitazione della sceneggiatura della Medea di Euripide, proposta da egli stesso, ma in chiave contemporanea.
Giuseppe Arcieri è stato il regista e co-sceneggiatore del cortometraggio. Ha scelto me, Vincenza Dinoia, attrice improvvisata e persona con disabilità. Una scelta senz’altro coraggiosa e innovativa.

Il progetto ha assunto una certa rilevanza a livello accademico, al punto da diventare un vero e proprio set cinematografico, in cui i ragazzi dell’Accademia di Foggia hanno potuto sperimentare questo suggestivo ambiente lavorativo.

Il regista ha scelto di far parlare i gesti e le emozioni di Medea, essendo alla mia prima esperienza, dando la parola alle due figure antitetiche Eirene e Polemos, il cui compito sarà quello di convincere Medea a vendicarsi o meno del marito Giasone, uccidendo i suoi figli, come avviene nella tragedia greca di Euripide.

Trovo che il personaggio di Medea sia emblematico, particolare e in un certo senso affascinante. Ci sono molte affinità con il personaggio; in particolare il pregiudizio che ruota intorno alla sua figura, essendo una strega e straniera. I pregiudizi legati alla disabilità, sono ancora tanti e difficili da scardinare.

Non poche difficoltà abbiamo incontrato nel raggiungimento delle location, tra la contrada di Andria, le saline di Margherita, Canne della Battaglia, meravigliose quanto poco difficilmente raggiungibili per chi utilizza una carrozzina. Ma con la collaborazione e il lavoro di squadra, le difficoltà son state superate.

Finalmente c’è un piccolo, e allo stesso tempo grande, riscatto, sia di Medea in quanto personaggio, sia mio, in quanto persona con disabilità.
Ma lascio queste analisi a chi di dovere, quando sarà possibile visionare il lavoro. Intanto è ancora in fase di montaggio e dopo girerà i festival nazionali ed internazionali.
Questa esperienza è stata senz’altro unica nel suo genere, un piccolo passo verso l’inclusione.

Vincenza Dinoia


Diverso o Supereroe?

L’estate sta per passare il testimone all’autunno, ma per una bella maratona su Netflix, Prime Video e altre piattaforme c’è sempre tempo.

Se come me nonostante l’età non potete fare a meno dei supereroi, date uno sguardo al telefilm “Superman e Lois”.
La serie statunitense è stata ideata da Greg Berlanti e Todd Helbing e trasmessa da The CW il 23 febbraio 2021. In Italia è stata trasmessa quest’estate su Italia Uno.

Ma perché questa “storia” è diversa dai fumetti e dai telefilm fino ad ora realizzati?

Come si evince dal titolo in questa serie Clark Kent non sacrificherà il vero amore per salvare l’umanità, ma dedicherà la propria vita ad entrambi come ogni normodotato.

Questo termine oggi è sempre più usato, in quanto chiarisce immediatamente a chi legge o ascolta, che la persona di cui si parla non ha una disabilità o divers -abilità.

Pertanto se per divers – abilità, si intende una capacità unica nel suo genere, che ci differenzia gli uni dagli altri, perché nel 2022 le cronache raccontano più episodi di emarginazione che di imprese “eroiche” al pari di Superman?

Noemi Cibelli


Italvolley campione del mondo

Un sogno non è una parola da sottovalutare, perché la lingua italiana ha bisogno di continui paragoni.
Il linguaggio parlato dai campioni, anzi giovani senza paura che hanno respinto la paura.
Avversari giganti, mentre noi non potevamo essere nani, perché con le nostre gambe eravamo giunti nel tempio polacco.

Abbiamo lavorato costruendo mattoni e scudi, quelli che erano mancati nei primi istanti di gara.
Ci siamo riusciti e lo abbiamo fatto col sorriso, divertendoci, come una lezione per tutti i grandi sognatori.

Allora prendete nota, prendete esempio, perché a est c’è una luce che mancava da 24 anni.

La nostra bandiera sul mondo.

Siete meravigliosi voi…

CAMPIONI DEL MONDO

Gianluigi D’Ambrosio (fondatore di Inchiostro Sportivo)


Medaglie diversamente importanti

Forse non ci siamo abituati. Non siamo ancora abituati a “loro”.
Non dobbiamo essere per forza corretti. Ma sinceri si. La diversità ancora oggi ci disturba.
Non vedo altra spiegazione.

Perché vedendo Arjola o Carlotta (nuovo record del mondo) oppure Simone in acqua, o Sara a cavallo, oppure Beatrice (per tutti Bebe) vincere l’oro e poi l’argento a squadre nel fioretto e rivelare al mondo che per un’infezione ha rischiato l’amputazione, dovremmo letteralmente impazzire e saltare sulla sedia e urlare a squarciagola per le imprese meravigliose che i nostri atleti stanno compiendo alle Paralimpiadi a Tokyo. E forse nel nostro cuore siamo anche contenti. E sicuramente molti avranno urlato.

Ma in tanti li guardano “quegli” atleti “diversi”.  E pensano che un altro oro è arrivato. Bello. Poi  guardano quel successo, quell’impresa, quel trionfo che può essere solo un esempio. Ma in realtà vedono la pelle rovinata dalla meningite, un arto a metà, una bocca storta. Vedono delle gambe magre, vedono una sedia a rotelle e dicono “poveretti”.

Forse si chiedono “ma come fanno?” Senza rendersi conto che quelle persone che hanno semplicemente delle disabilità non solo hanno lottato contro se stesse e contro il mondo che le circonda, ma hanno anche ottenuto prestazioni sportive incredibili eguagliando e forse in alcuni casi superando i colleghi senza disabilità, quelli chiamati normodotati (cioè noi che siamo i normali, per intenderci).
La passione? E’ la stessa. L’agonismo? Gli allenamenti, l’impegno, i sacrifici? Non vedo differenze con Marcell, Luigi o Gianmarco (Gimbo).
Forse allora non ci siamo ancora abituati. Fingiamo di farlo e siamo contenti che quel poveretto o quella poveretta abbiamo vinto. Ma non lo sentiamo nostro quell’oro. Non ci appartiene.

Avrei decine e decine di storie da raccontare. Ne ho scelto una, quella di tutti.

Abituarsi alla diversità non è facile. Anche se basterebbe guardare i bambini per capire che non ci sono barriere. E invece noi adulti siamo sempre così sospettosi, diffidenti, capaci di costruirci profondi fossati e giganteschi muri.
Chi si è fermato alle Olimpiadi non conoscerà tante altre emozioni. E’ una storia bella e bisogna spiegarlo. Nelle *Paralimpiadi parliamo di fare cose impossibili. Si per noi che abbiamo difficoltà anche ad allacciarci le scarpe ci farebbe bene vedere persone che giocano a ping pong senza braccia. Abbas, 24 anni, nuota senza braccia, è scappato da Kabul a 16 anni ma questa è un’altra storia.

Gli esempi di vita servono. E allora abituiamoci. Staremmo meglio noi e staremmo meglio con gli altri.

 

Alessandro Ricupero

 

credit: Eurosport

L’apertura delle paralimpiadi è il nostro fischio d’inizio per il blog di Pot

Non si può parlare di sport senza parlare di Paralimpiadi, come non si può parlare di PoT senza affrontare il tema dell’inclusione e della diversità di sfumatura.

Manifestazione sportiva internazionale iniziata da poche ore a Tokyo, queste Paralimpiadi promettono già un buon risultato sportivo, coinvolgendo 4.537 atleti in rappresentanza di 163 Nazioni e assegnando 540 medaglie in 22 discipline sportive. 

Abbiamo deciso di iniziare così la nostra rubrica sportiva sul blog aziendale di PoT, attraverso il racconto di un evento internazionale che vede la diversità come ingrediente di un mondo che solitamente, ambisce alla perfezione: di risultato, di obiettivo, di formazione, e che nell’immaginario ha poco a che fare con le disabilità.

Attraverso lo sport, invece, pensiamo che si possa instaurare un linguaggio universale che riesca finalmente ad abbattere stupidi stereotipi che portano ad eroizzare, ad esempio, un atleta per ciò che gli manca e non per i risultati sportivi che conquista.  Al momento, abbiamo ammirato solo la cerimonia di apertura, nel suo aspetto più scenografico in cui i giapponesi sono maestri d’arte, ma già traspaiono molti elementi anche di comunicazione non verbale che possono farci capire come saranno recepite le Paralimpiadi dall’intero pubblico: un po’ di radicato abilismo mischiato a notizie sportive, forse troppo tecniche per colpire l’utente medio.

Ancora tanto c’è da fare, ad esempio, in ambito di comunicazione diversity & inclusion, nel tramite del racconto, della scelta dei giornalisti migliori, che oltre alla professionalità o all’esperienza, sappiano essere veicoli di una divulgazione più consona sul tema della disabilità, partendo dal considerare un atleta come qualunque altro professionista sportivo e non come un esempio a parte. Oppure che sappiano presentarli con un nome, un cognome, un risultato in una gara e non come un ingrediente mancante per far reggere la persona, nominando prima la tipologia di disabilità, come fosse un’etichetta di riconoscimento. Abbiamo assistito ad una lunga sfilata che ha toccato ogni parte del mondo, colorata da bandiere e divise, con qualche patologia dichiarata troppo in fretta che tanto ha fatto sospirare il pubblico sul termometro della pietà.

Cosa dovremmo recepire, invece, dalle Paralimpiadi? Il bisogno di non essere considerati atleti di 2ª categoria, di meritare una comunicazione che faccia leva sullo sport e che il resto sia solo pura scenografia, non da nascondere, ma solo di riempimento per la notizia, di non dover dimostrare di essere eroi, ma solo persone che perseguono professionalmente una passione come chiunque altro, con regole differenti ma ugualmente riconosciute.

Ciò che ci piacerebbe è partecipare ad un percorso di omologazione di queste manifestazioni che possano raccogliere sotto un unico cielo l’intero evento sportivo: non più Olimpiadi e Paralimpiadi, ma una sola manifestazione nel rispetto dello sport e degli atleti. È in questo modo che lo sport può contribuire realmente a divenire merce di scambio per una nuova consapevolezza sul concetto di squadra e appartenenza.

Abbiamo tempo fino al 5 settembre per fare il tifo, per cambiare la nostra visuale su questa manifestazione se ancora non abbiamo colto la potenzialità di riuscire a cambiare prospettiva sul binomio sport e disabilità.

Valentina Tomirotti


La moda bella e buona

Nel 2010 scrivevo la mia tesi di Laurea Magistrale sulla Responsabilità Sociale, dedicando un intero capitolo di quest’ultima al consumo critico. Oggi, a distanza di anni, mi trovo a scrivere sul PoT Blog, nel ruolo di Fondatrice e Direttrice della PoT Agency, un articolo che tratta lo stesso tema, ma con una rinnovata energia ed una più mirata speranza. All’interno della mia produzione scientifica, ed in generale durante tutti i miei anni di formazione e lavoro in Accademia, infatti, mi sono sempre rivolta a tematiche sociali in generale, affrontandole dal punto di vista di chi da dietro una scrivania, si trova a poter giudicare dall’alto i comportamenti e le pratiche dei soggetti che indaga. Quasi come nulla mi riguardasse davvero da vicino. Come se il mondo che studiavo non fosse poi lo stesso in cui ero quotidianamente immersa, in cui vivevo, mi relazionavo. Avere una azienda e scrivere un blog è tutta un’altra storia. Non puoi permetterti di elevarti a giudice, perché il primo ad essere sempre sul banco di prova sei tu: quello che scrivi, i servizi che dai e quello che produci. E sei tu ad essere in attesa del giudizio dei tuoi clienti: ora sono loro che ti osservano e che ti valutano. Dedicare oggi parte del mio lavoro alla promozione di principi quali la sostenibilità e l’etica ha un significato molto diverso. I valori smettono di essere solo parole da rivendicare, ma diventano vere e proprie pratiche da dimostrare coi fatti, attraverso scelte che nel mercato competitivo e saturo di oggi sono difficili da portare avanti. Proprio per questo ho deciso di dedicare uno spazio intero ad una realtà che riesce a rendere questi principi una vera e propria attività commerciale. Tutto è partito poco tempo fa. Mi trovavo nel bar del nuovo quartiere dove sono andata a vivere, seduta su una sedia nell’area esterna a fare colazione. Vicino a me vedevo persone che di continuo entravano e uscivano da un negozio con una grande e vivace insegna blu: “Mercatino. Compra e vendita usato”. Così, finito il mio cappuccino caldo, ho deciso di entrare anche io in quel mondo che poi ha finito per affascinarmi tanto da volerlo raccontare per condividerlo con voi…

 

Ora facciamo un passo indietro e cerchiamo di capire meglio cosa sia la Responsabilità Sociale. Questo concetto rappresenta il superamento da una parte, quella delle imprese, di quella che tradizionalmente viene definita come la Corporate Social Responsibility (CSR), e dall’altra, quella dei consumatori, del cosiddetto consumo critico. La Responsabilità Sociale Condivisa, quindi, coinvolge tutte le sfere sociali presenti a livello territoriale. In quest’ottica, non sono più la singola impresa, istituzione o cittadino a doversi interrogare sulla qualità del proprio sistema di relazioni per arrivare a definire strategie ed azioni con l’intento di perseguire in modo più efficiente la propria missione, bensì, seguendo questa nuova visione, occorre che vi sia una rete di soggetti ed istituzioni capaci di interrogarsi su quella che è l’efficacia delle azioni comuni. Non basta che poche imprese da una parte e pochi consumatori dall’altra condividano una dimensione di responsabilità e di criticità nei confronti del modello sociale ed economico prevalente oggi, ma è necessario che tutto il sistema economico, politico, sociale e territoriale sia orientato verso questa prospettiva. Questo paradigma si basa sull’affermazione di un Homo Civicus, un individuo, cioè, che non vive più passivamente le circostanze, ma che, al contrario, diventa artefice della propria vita capace di coniugare il pensare a se stesso con il vivere per gli altri, così come sottolinea con forza simbolica Ulrick Beck attraverso l’uso del concetto di “individualismo altruistico”. L’Homo Oeconomicus, caratterizzato da un individualismo egoistico, abitante ideale di una società caratterizzata dall’assenza di principi a carattere sovra-individuale, una crescente assenza di norme, una pluralità delle autorità ed una presenza di orientamenti etici tra loro eterogenei, deve trasformarsi allora in un uomo cooperativo e capace di compiere scelte morali.

 

Per alcuni di voi potrebbe risultare difficile tradurre questa spiegazione scritta attraverso l’utilizzo di termini tecnici delle scienze sociali con esempi di vita concreta, comportamenti, pratiche ed esempi di responsabilità sociale e consumo critico. Per superare questo ostacolo ho deciso di incentrare il mio articolo sul tema del fashion etico e sostenibile. Nel nostro, che è il Paese della moda per eccellenza, parlare di abiti, scarpe ed accessori, infatti, può aiutarmi a raggiungere molte più persone di quanto le parole complesse possano fare. Inoltre, attraverso gli articoli del PoT Blog ed i lavori ed i progetti della PoT Agency, sto cercando di dimostrare come, nonostante molti pensino il contrario, l’abito in alcuni casi faccia il monaco. Un vestito non è quasi mai solo un vestito. Un vestito è molto di più di qualcosa che ci buttiamo addosso al mattino per coprirci e uscire di casa. Un vestito è un manifesto, è quello che siamo e che vorremmo essere. Rappresenta quello che pensiamo, in cui crediamo ed il mondo in cui vorremo vivere. Con la sua forza comunicativa un outifit amplifica il volume delle nostre battaglie. Pensiamo al movimento femminista, alle sue minigonne ed alle camicette portate senza reggiseno. Alla primavera araba e le immagini delle tante donne ritratte senza il velo sui capelli. La moda, forse proprio grazie alla sua leggerezza e la sua capacita di conquistarci, a prescindere dal nostro livello culturale, classe sociale ed etnia, ci mette tutte in prima linea nel mostrare ciò che vorremmo per noi e per il mondo.

 

Il tema della lotta contro l’inquinamento ambientale ed il problema del cambiamento climatico in corso non poteva trovare, quindi, migliore alleato che il mondo della moda. Non dobbiamo, quindi, meravigliarci se, sfogliando le riviste e leggendo le numerose fashion blogger, troviamo sempre più articoli dedicati al tema della moda etica e sostenibile. Quello che, come sociologa dei consumi che svolge le proprie analisi partendo da uno spirito critico di base, mi chiedo è: “Si tratta di una vera e sincera attenzione al tema ambientale o piuttosto di un “green washing” per avvicinare un pubblico di nuovi consumatori che si dimostra sempre più attento nel fare le proprie scelte di consumo? E soprattutto, come possiamo essere in grado di distinguere coloro i quali sono interessati a dare risposta ai problemi legati all’industria della moda da chi, al contrario, ha solamente trovato un nuovo specchietto per le allodole con lo scopo di incrementare i propri affari?”

 

Perché, nonostante io sia la creatrice di un modello di business che si occupa di creatività, e quindi tra i vari settori anche di quello del fashion e del beauty, con l’onestà che mi contraddistingue voglio ammettervelo: il mercato della moda nasconde dei lati oscuri.

Ho deciso, quindi, di riportare qui una breve lista che riassume i problemi più importanti ed i lati negativi di questo mondo.

 

– L’inquinamento

Quella della moda è una delle industrie che più inquinano al mondo.

Questo vale in particolar modo per il modello della “moda veloce”, nato con lo scopo di promuovere la produzione di abbigliamento economico in modo così veloce da essere sempre in linea con le più recenti tendenze della moda. L’espressione “fast fashion”, venne utilizzata la prima volta all’interno di un articolo pubblicato sul New York Times alla fine del 1989, all’apertura delle porte dello store di Zara nella Grande Mela, e fa riferimento al modo in cui i grandi rivenditori oggi trasformano l’idea di un disegnatore in un articolo disponibile al pubblico nel giro di poche settimane vendendolo sul mercato ad una fascia di prezzo accessibile davvero a tutti. Il moltiplicarsi di questi brands ed il loro successo nel fornire alle masse abiti economici e di tendenza hanno condotto ad un grosso cambio nel comportamento dei consumatori, arrivando a ridisegnare dominandolo il settore della moda: questa tendenza, infatti, ci ha permesso di costruire un armadio sempre più grande, con capi che indossiamo e sfoggiamo giusto il tempo di farci trascinare nella scia del trend del momento. Tutto questo è possibile grazie a strategie create con lo scopo continuamente nuovi trend, che svolgono un ruolo chiave nel far funzionare l’intero meccanismo: quello di indurre le persone ad acquistare d’impulso.

Lasciando da parte in questo articolo le questioni riguardanti il tema dell’influenza sui modelli di consumo piuttosto che, in generale, della creazione di un modello di pensiero dominante, quello che vorrei sottolineare è come questo modello provochi effetti devastanti a livello di impatto ambientale. I dati e le ricerche svolte, infatti, dimostrano come l’industria della moda sia responsabile del 20 per cento del consumo di acqua e del 10 per cento delle emissioni di anidride carbonica; produca ogni anno 92 milioni di tonnellate di rifiuti; sia collegato alla produzione del cotone vi sia il 24 per cento dell’uso di insetticidi; generi emissione di gas serra più degli spostamenti aerei e navali di tutto il mondo.

Un problema particolare, ad esempio, è collegato all’utilizzo di determinate materie prime per la produzione tessile. Studi condotti sull’industria della moda mostrano, ad esempio, che l’85% di questi sono realizzati con cotone prodotto nelle distese del Texas o dell’Argentina di tipo OGM (organismo geneticamente modificato). Questo, tra le altre cose, porta i grandi coltivatori a scegliere di spruzzare diserbanti sulle distese ampie dei loro campi, con lo scopo di intensificare i loro raccolti. Questa scelta ha, però, effetti negativi devastanti sull’ambiente e sulla salute delle persone residenti in quei luoghi. Inoltre, esiste una vera e propria questione legata agli scarti prodotti da quest’ultima. Essi, infatti, finiscono nelle acque dei fiumi, le quali vengono utilizzate dalla popolazione locale. Un caso allarmante è quello del Gange, il più grande fiume indiano, in cui è stata riversata una sostanza per trattare il cuoio chiamata Cromo 6, che ha finito per provocare in molte persone tumori o malattie epatiche.

Ho riportato qui questi pochi esempi solo per farvi comprendere come i nostri acquisti e le nostre scelte di consumo siano il carburante che alimenta un un modello di business del tutto insostenibile e distruttivo per il mondo in cui viviamo e in cui vivranno le future generazioni.

 

– Lo sfruttamento

In relazione all’industria della moda, se gli effetti negativi dal punto di vista ambientale sono questioni affrontate sia da media, che da influencer, nonché da brand che sempre più spesso realizzano linee di abbigliamento composte da abiti ed accessori sostenibili, quello spesso non viene trattato è il tema delle conseguenze e dei problemi in ambito sociale. Molti dei nostri vestiti, infatti, provengono dall’altra parte del mondo, da luoghi in cui i lavoratori dell’industria tessile vivono e lavorano in condizioni vicine alla schiavitù, in fabbriche nelle quali diritti umani, talvolta anche quelli più basilari, non vengono rispettati.

Secondo un rapporto “Salari su misura 2019: Lo stato delle retribuzioni nell’industria globale dell’abbigliamento”, pubblicato dalla Clean Clothes Campaign, nessun grande marchio di abbigliamento è in grado di dimostrare che i lavoratori che producono i loro capi in Asia, Africa, America Centrale o Europa Orientale siano pagati abbastanza per sfuggire alla trappola della povertà. Dalla ricerca è emerso, infatti, che se da un lato l’85% dei marchi si è impegnato in qualche modo a garantire che i salari siano sufficienti a soddisfare le esigenze di base dei lavoratori, al contempo, nessuno di loro ha messo in pratica questo principio per nessun lavoratore nei Paesi in cui viene prodotta la stragrande maggioranza dei capi di abbigliamento. Dei 20 marchi intervistati per la ricerca, 19 hanno ricevuto il voto più basso possibile, mostrando di non essere in grado di produrre alcuna prova che a un lavoratore che confeziona i loro capi di abbigliamento sia stato pagato un salario vivibile in qualsiasi parte del mondo. L’unica caso virtuoso è emerso essere il marchio italiano Gucci, che ha dimostrato come, per una piccola parte della sua produzione in Italia e grazie alle trattative salariali nazionali, garantisca ai suoi lavoratori paghe che consentono a una famiglia media del Sud e del Centro Italia di vivere una vita dignitosa. A seguito dell’analisi dei risultati emersi, Deborah Lucchetti della “Campagna Abiti Puliti”, sezione italiana della “Clean Clothes Campaign”, ha dichiarato: “Le iniziative volontarie non sono riuscite a garantire i diritti umani dei lavoratori. Il modello economico globale che spinge i prezzi al continuo ribasso e mette in competizione i Paesi a basso salario è troppo forte. È un dato di fatto che i lavoratori che producono quasi tutti gli abiti che compriamo vivono in povertà, mentre le grandi marche si arricchiscono grazie al loro lavoro”. In particolare, è stato dimostrato come salari di base in Etiopia e Bangladesh siano meno di un quarto del salario dignitoso e come in Romania e in alcuni altri paesi dell’Europa orientale il divario sia ancora maggiore, poiché i lavoratori guadagnano solo un sesto di quanto necessario per vivere con dignità e mantenere una famiglia.

Il controllo del Paese di provenienza del marchio non è, però, garanzia di trasparenza in questo senso. Nel caso di alcune grandi multinazionali proprietarie di brand occidentali, infatti, la fase di produzione dei prodotti viene esternalizzata a reparti o ad altre imprese la cui sede è localizzata in luoghi nei quali i diritti dei lavoratori non sono garantiti o, addirittura, nemmeno previsti dalla legge.

Affrontando questo argomento nella mente di molti di voi si immaginerà subito io faccia riferimento all’industria cinese. La verità, invece, è che questo è uno stereotipo ormai anacronistico che deve essere superato. Se in passato il contenente asiatico rappresentava davvero un luogo altamente a rischio, oggi la situazione sembra in fase di trasformazione: anche in Cina, infatti, si stanno affermando sempre più i diritti tipici delle democrazie occidentali. Al contrario, occorrerebbe aprire nuove forme di controllo per quando riguarda i prodotti provenienti da Paesi come l’Etiopia e il Bangladesh, in cui si stanno aprendo molte fabbriche, nonché quelli esportati da Paesi della stessa Europa, come ad esempio Bulgaria e Serbia, che presentano un livello di sfruttamento dei lavoratori molto alto.

 

– Il costo

“Chi più spende, meno spende”. Questo detto sta a significare che se si paga un prezzo più alto ci si garantisce una qualità maggiore rispetto ad un capo o un accessorio con un prezzo più basso. La spesa fatta per consumare, in questo senso, rappresenta un investimento per l’acquisto di prodotti più duraturi, meno impattante sull’ambiente e per un migliore tenore di vita dei lavoratori. Questa logica, che pervaso fino ad ora il nostro immaginario, non è però più sempre vera. Un prezzo basso può derivare, infatti, non solo da una qualità inferiore del prodotto o della responsabilità collegata alla sua realizzazione, bensì anche dall’utilizzo della tecnologia, dalla scorporazione dell’offerta in alcune componenti di costo e da tanti altri fattori legati alla produzione, la logistica ed il marketing. Il cliente, sempre più attento ed esigente, abituato a modelli come quello Amazon, che coniuga prezzi bassi ad un servizio eccellente, non si aspetta che un servizio o un prodotto low cost sia allo stesso tempo high value. L’enfasi pubblicitaria legata ai più importanti brand di moda, che per decenni ha giustificato un aumento dei prezzi sconsiderato rispetto al valore reale dei capi e degli accessori sembra, inoltre, non rivestire più un ruolo centrale per la costruzione di strategie di comunicazione efficaci per raggiungere i consumatori di oggi. Sempre più importante, infatti, risulta il rapporto qualità/prezzo, la provenienza, la sostenibilità, la possibilità di personalizzazione dei singoli abiti o accessori, la capacità di intercettare i gusti dei consumatori in un rapporto diretto con loro. Si badi bene, però, non voglio asserire che spendere meno rappresenta sempre e comunque la scelta migliore. Al contrario, vorrei dimostrare come non ci sia più una netta divisione tra i clienti del tutto orientati al lusso e coloro che scelgono il low budget. Tutti noi, infatti, in alcuni casi facciamo scelte di consumo di tipo low cost mentre per altre decidiamo di spendere. Una sorta di mood che spazia da Zara a Vuitton. Acquistare a poco prezzo non è più una questione dettata dal portafoglio, uno stigma di cui si deve vergognarsi e perfino tentare di nascondere, ma al contrario rappresenta una scelta smart anche per chi potrebbe permettersi altro. I dati e le ricerche di mercato, inoltre, dimostrano come sia poco probabile che il consumo low cost cannibalizzi i settori tradizionali. Questo, piuttosto, ha dato influito nella creazione di una nuova domanda: anziché portar via fette di torta, l’ha ampliata. In conclusione, la possibilità di acquistare capi ed accessori a basso prezzo seppur di buona qualità ha portato ad una democratizzazione dei consumi e ad una sana concorrenza tra i diversi business del mercato della moda.

 

– I grandi marchi

La vita mi ha insegnato che è sbagliato generalizzare. Regola, questa, che vale anche per il tema che sto affrontando all’interno di questo articolo. Diverse ricerche ed inchieste condotte sui lati oscuri del mondo della moda hanno dimostrato, infatti, come la responsabilità sociale non sia collegata a caratteristiche del brand e dell’impresa, quali: la sua popolarità, il suo valore economico sul mercato, il luogo in cui ha la sede, etc.

Però, diciamoci la verità. Se quando compriamo un capo d’abbigliamento a pochi euro e presso una catena di moda low cost, non ci sconvolge l’idea che questo sia stato realizzato dall’altra parte del mondo, con materiali non di prima qualità e da un operaio pagato con un salario non dignitoso, la cosa cambia quando per i nostri acquisti i prezzi iniziano a salire, raggiungendo anche il migliaio di euro. In questo caso, ci risulta difficile pensare che le materie prime siano scarse, e che il nostro capo di moda sia stato fabbricato in un Paese del Terzo Mondo per pochi euro. Eppure è proprio questo che accade quando si analizza tutta la filiera legata alla produzione di abiti ed accessori del mondo scintillante del fashion e del beauty.

Se la fase di produzione di molti brand nel settore del lusso viene realizzata in Paesi come l’Armenia, Romania, Repubblica Moldava e Bulgaria, non è certo per la ricerca di una migliore qualità ed esperienza, bensì per una questione di costi. Si tratta di una vera e propria corsa al prezzo più conveniente, un tour tra gli stati dell’est che offrono il prezzo migliore. Uno dei luoghi di maggior produzione, almeno in questo momento, risulta essere la Transnistria, di cui la maggior parte di voi credo nemmeno conosca l’esistenza (lo dico perché la cosa riguarda in primis me prima dello studio che ho svolto per scrivere questo articolo). Si tratta di uno stato auto-proclamato facente parte della Repubblica di Moldavia, un territorio nemmeno riconosciuto dalle Nazioni Unite ma conosciuto molto bene dai signori del lusso. Un luogo dove in cui l’asticella del prezzo e della dignità viene abbassata ogni giorno di più e dove i giornalisti è vietato entrare. Al contrario sono accolti davvero bene turisti e soprattutto uomini d’affari, che in Transnistria sono per l’80% italiani. Studiando le inchieste legate a questo tema, sono rimasta sconvolta nel sapere come per esempio per la realizzazione di un giaccone che in Italia viene venduto a quasi 2.000 euro, corrisponde un salario di dipendente che va, nei migliori dei casi, dai 18 e i 30 euro.

Quello che si gioca nel settore della moda sembra un vero e proprio tiro alla fune per accaparrarsi il costo più stracciato possibile per un capo, il quale poi finisce nei nostri armadi a seguito di un ricarico impressionate sul prezzo della vendita.

 

– L’estetica

Oscar Wilde diceva: “La moda è una forma di bruttezza così intollerabile che siamo costretti a cambiarla ogni sei mesi”. Parole provocatorie che, però, descrivono in modo efficace il vorticoso rincorrersi che avviene a ogni giro di boa tra le numerose proposte di fashion che da bellissime si trasformano in demodé in un tempo sempre più breve.

Esiste però una moda che non si riduce alla mera costruzione di un trend, a fattori legati al business e al profitto, piuttosto che riduzione dei costi industriali. Esiste una moda capace di mettere in primo piano il valore artistico dei prodotti, nonché l’espressione culturale e valoriale che portano con sé. Secondo questa moda, il concetto di bello è, perciò, intimamente legato a quello di buono (nel senso di sostenibile e responsabile).

 

Un esempio legato a questo tema è progetto no-profit “EticaEstetica” di Enzo Caldarelli, visionario libero pensatore e viaggiatore, amante dell’arte. Il suo progetto, infatti, al quale hanno aderito personalità come gli attori Ennio Fantastichini e Elena Sofia Ricci, il fisico David Jou, lo chef Martin Berasategui, oltre a Carlo Capasa, presidente della Camera della Moda italiana, ha lo scopo di far riflettere sui confini sottili che esistono e legano tra loro i concetti di etica e di estetica. Il legame esistente tra etica ed estetica, sostiene il creativo, è decisivo per il nostro modo di essere poiché ha implicazioni sulla nostra condotta e sul nostro stile di vita, definendo, quindi, il nostro limite in termini di dignità e buon gusto. Il messaggio che vuole veicolare in breve è: senza etica l’estetica diventa superficiale cinismo e senza estetica l’etica diventa petulante moralismo.

Questo pensiero dovrebbe diventare un mantra da per-seguire durante tutte le fasi che riguardano i settori della moda. Ed in particolare, dovrebbe essere ribadito a chi pensa che gli abiti e gli accessori responsabili e sostenibili non possano o debbano interessarti alle questioni legate lo stile, la comunicazione e il marketing, e possano insomma risultare sul mercato ben poco attraenti. La moda etica potrà avere un vero impatto, infatti, solo se sarà capace di uscire dalla sua posizione marginale e di nicchia sul mercato. Occorre sfatare il luogo comune che associa l’abbigliamento etico ad un target di consumatori non interessati a quell’appeal che rende i prodotti di moda anche di tendenza, trasformandoli, al contrario, nel risultato di una costante ricerca nel tentativo di tenere insieme estetica ed etica.

 

Il sito del movimento “Fashion Revolution Italia” inizia con la frase che recita: “La moda è una forza importante, di cui tenere conto nella nostra società. Può suscitare emozioni, provocare, guidare, affascinare”. Ho riportato qui la loro frase di benvenuto per far comprendere come non sia il rifiuto della moda a soluzione ai problemi che vi ho elencato all’interno di questo articolo.

Quello che dovremo fare, al contrario, è mettere in pratica le parole del Mohandas Karamchand Gandhi, che ci insegnano come siamo noi a dover essere il cambiamento che vogliamo vedere nel mondo. Questo, che può sembrare una filosofia di vita lontana dal nostro tema, si traduce semplicemente nel compiere scelte consapevoli e responsabili quando acquistiamo nel mondo della moda e del beauty.

 

Una delle risposte pratiche per mettere fine al circolo vizioso senza fine tipico, in particolar modo, dell’industria della fast fashion è rappresentata dall’acquisto di abiti di seconda mano. La mattina in cui ho visto per la prima volta l’insegna del Mercatino Eur, entrare nel negozio, conoscere di persona i suoi lavoratori, immergermi tra le corsie allestite con abiti di tutti i colori e materiali, visitare il sito web, i social media e gli articoli del blog, tutto questo mi ha fatto comprendere come spesso per i problemi più grandi esistono soluzioni davvero semplici che si trovano ad un passo da noi. E come l’informazione sia la migliore arma per sconfiggere il nemico che minaccia il mondo della moda.

Il Mercatino Eur, fondato nel 1995 a Mostacciano, una zona di Roma caratterizzata dal verde che la circonda e la sua popolazione gentile e socievole, è un esempio concreto di come responsabilità sociale ed ambientale possano divenire il punto di forza di un’attività di business. I suoi reparti sono davvero numerosi, colorati e ricchi di oggetti di tutti i tipi. Nonostante la proposta così ampia gli scaffali e in generale l’ambiente del Mercatino Eur è pulito, ordinato ed allestito in maniera impeccabile.

Quello che mi ha colpito maggiormente è il settore dedicato alla moda. Il mondo degli abiti e degli accessori dell’usato è sempre stato per me di enorme interesse. Ricordo che nell’anno passato a Cambridge durante il mio ultimo anno di Dottorato, amavo recarmi spesso nei mercatini affollati di Londra, affrontando la ricerca di un vestito, una borsa o un oggetto particolare come una vera e propria sfida: trovare il pezzo più cool al prezzo più basso. In Italia, però, a causa da una parte degli stereotipi negativi che esistono sul mondo dell’usato, dall’altra su temi reali legati a questa realtà, mi sono pian piano allontanata da questo mondo. Generalmente sui vestiti e gli accessori usati si abbatte il pregiudizio secondo il quale questi sarebbero sporchi, rovinati e fuori moda. Inoltre, i luoghi in cui possiamo trovare questi prodotti si differenziano spesso in due tipologie opposte: da una parte vi sono negozi in cui i prodotti di tutti i tipi, spesso riuniti in vere e proprie cataste, vengono abbandonati in maniera confusionaria e lasciati a deteriorarsi nel tempo; dall’altra esistono le boutique dei cultori del vintage, che propongono nella maggior parte dei casi pezzi di grandi firme a prezzi altissimi.

Il Mercatino Eur mi ha sorpreso mostrandomi una realtà capovolta. I settori del negozio sono divisi tra loro per tipologia di prodotti proposti, tutti puliti ed ordinati e ciascuno dei quali gestito da un responsabile esperto in tema di qualità, prezzi sul mercato etc. Le corsie dell’ambiente dedicato alla moda, in particolare, non hanno davvero nulla da invidiare a quelle di un negozio total-look di tendenza. Gli abiti venduti sono in perfetto stato e molti sembra non siano nemmeno mai stati utilizzati prima. E’ stato bello vedere come i commessi, oltre ad aiutare i clienti nei loro acquisti, trascorrono il tempo nel sistemare i capi dividendoli per genere, colore e marchio. Come le scarpe siano sempre sistemate, tutte ripulite e riunite in base al loro numero, sugli degli scaffali che si trovano proprio al centro del reparto moda. E come anche per la presentazione degli accessori niente sia lasciato al caso: sono allestite, infatti, vetrine che mostrano ai clienti tutta la bigiotteria in vendita, in modo tale che si possa decidere come comporre il proprio outfit valutando tra tutte le opzioni disponibili quel giorno all’interno dello store.

Credo sia grazie propria questa cura ed attenzione per i dettagli, la dedizione ed esperienza delle persone che vi lavorano, la presenza di prodotti sempre nuovi e di tendenza, la proposta di servizi innovativi, come quello dell’acquisto e la vendita di capi e accessori delle grandi firme, che rendono questo spazio non un mero negozio, bensì un luogo da vivere a 360 gradi, un posto in cui le persone di recano anche più volte a settimana per aggiornarsi sulle novità e le nuove proposte, in cui potersi confrontare con persone gentili ed interessate a far star bene il cliente e non per forza a dovergli vendere qualcosa a qualsiasi costo.

Il Mercatino Eur, inoltre, non mette in pratica solamente valori come il rispetto per l’ambiente, i lavoratori e il giusto rapporto tra costo e prezzo del prodotto, ma crea al suo interno un circuito economico sostenibile basato sulla logica dell’economia circolare, in cui ciascuna persona può divenire soggetti economico, solamente portando al negozio oggetti che, per necessità o semplicemente perché se ne vuole liberare, torneranno a rivivere all’interno di una nuova casa, anziché diventare uno scarto privo di valore economico.

Davvero incuriosita ed affascinata da questo luogo magico non vi meraviglierete se vi confesso che, una volta tornata a casa, mi sono subito messa alla ricerca di altre informazioni sul web che riguardassero il Mercatino Eur. La sorpresa è continuata nel verificare come i suoi servizi fossero a disposizione dei suoi clienti anche dopo essere usciti dal negozio. Il Mercatino Eur, infatti, è provvisto di una speciale app scaricabile su tutti i dispositivi mobile per aggiornare i suoi clienti sullo status della vendita dei loro prodotti, di un ecommerce in cui poter visionare i prodotti in vendita per provvedere all’acquisto e alla consegna direttamente e comodamente a casa propria, di un blog in cui tenersi informati su molti temi interessanti legati alle loro attività e non solo.

 

Per tutti questi motivi ho quindi deciso di tornare al Mercatino Eur e chiedere alla sua giovane Direttrice di poter realizzare uno shooting fotografico con il team della PoT Agency. Credo, infatti, che le immagini che abbiamo realizzato per voi possano farvi vedere quello che anche io ho visto coi miei occhi.

La dimostrazione più forte che posso darvi, però, sul fatto che ciò che vi dico e scrivo ciò in cui credo davvero, è data dalle queste immagini che vi mostrano me, ospite di un evento organizzato da Linda Caroli, consulente di finanziario di Banca Mediolanum, vestita di un abito da sera lungo a sirena di colore rosso, che ho abbinato ad un paio di scarpe decolté dello stesso colore, il tutto al costo di meno di 20 euro, che ho acquistato il primo giorno in cui ho fatto visita al Mercatino Eur di Mostacciano a Roma.

A questo punto, amiche e amici della PoT Agency, non vi resta che fare come San Tommaso: visitate il Mercatino Eur e fate la vostra scelta per una moda che racconti il mondo in cui desiderate vivere!

Elisa Badiali


La Pink Revolution inizia ora!

“Io credo nel rosa. Io credo che ridere sia il modo migliore per bruciare calorie. Io credo nei baci, molti baci. Io credo nel diventare forte quando tutto sembra andare storto. Io credo che le ragazze felici siano le ragazze più belle. Io credo che domani sarà un altro giorno, ed io credo nei miracoli”. Citare le parole della più importante icona senza tempo Audrey Hepburn per me è come recitare un mantra.
Credere nel rosa significa molto più che definire una preferenza per un colore. Infatti, esiste perfino una branchia della psicologia che si interessa proprio dei significati associati ai colori e al modo in cui si risponde ad essi. I significati associati ai colori sono spesso connotati culturalmente e quindi nel caso in cui si parli di differenze di genere legate al colore torna la questione di quanto queste preferenze abbiano matrice genetica e quanto siano legate ai significati attribuiti ai ruoli da un determinato gruppo. E’ opinione comune che il rosa rappresenti nella nostra società il colore femminile per eccellenza. Soprattutto nell’infanzia, in cui, ad esempio, il fiocco appeso alla porta, la coperta nel passeggino, i vestiti delle bambole, sono tutti elementi il cui colore esprimono il genere della nascitura. Ma è sempre stato cosi nel corso del tempo? Ed è così anche nel resto del mondo? La risposta ad entrambi i quesiti è no. Si pensi, infatti, che solo nel vicino XVIII secolo erano gli uomini a vestirsi di rosa, poiché derivato del rosso, colore simbolo della forza, mentre alle donne era associato il blu, perché legato al velo della Vergine Maria. Nella cultura koreana, tuttora lo sposo viene vestito di rosa durante il giorno del matrimonio, perché colore considerato simbolo di virilità. Troppi pregiudizi, dunque, pesano su questa entità che nasce dall’unione felice del rosso e del bianco, colma di simbolismi religiosi ed esoterici. La forza vitale del sangue, unita alla purezza assoluta dell’anima. Il mistero, l’eterno femminino. Non è un caso che la parola rosa possa essere anagrammata in raso e orsa, come se contenesse nella sua essenza più profonda una dualità, allo stesso tempo leggera e selvaggia, destinata finalmente ad essere riconosciuta.
Per quanto possa sembrare strano oggi immaginare un uomo vestito di rosa, basterebbe solo pensare al celebre ‘Pink Suit’, l’abito rosa indossato da Jay durante il pranzo con la sua amante ed il marito, nel capolavoro di F.Scott Fitzgerald “The Great Gatsby” del 1925, per cambiare opinione. La storia della moda ci insegna, infatti, che solo a partire dagli anni Ottanta scomparvero gli abiti unisex e si imposero definitivamente una serie di stereotipi legati all’associazione dei colori per differenza di genere. Ci sono cose da maschi che le femmine non possono fare e ci sono cose da femmine che è vergognoso che i maschi facciano. Tra queste, indossare qualcosa di rosa. Quello dei colori attribuiti in modo automatico a bambini e bambine è uno degli stereotipi più radicati e scontati legati alla differenza di genere, e questo stereotipo ha una storia e un’evoluzione, come racconta l’Atlantic in un articolo, riprendendo un libro della storica Jo B. Paoletti dell’Università del Maryland, intitolato “Pink and Blue: Telling the Boys from the Girls in America”. Uno dei primi riferimenti all’attribuzione dei colori al sesso si trova in “Piccole Donne” di Louisa May Alcott, dove un nastro rosa è usato per identificare la femmina ed uno azzurro per il maschio. L’usanza però viene definita dalla stessa Alcott come “moda francese”, come a dire che non era ancora una regola riconosciuta ovunque, ma anzi, era una specie di vezzo esotico: “Qual è il maschio e qual è la femmina? – chiese Laurie chinandosi per esaminare più da vicino i due prodigi. – Amy ha messo un nastro azzurro al maschio e uno rosa alla femmina, come si usa in Francia, in modo da distinguerli senza sforzo”. A quel tempo, i libri per bambini, gli annunci e i biglietti per le nuove nascite, la carta da regalo e diversi articoli di giornale indicano che non si trattava di una regola e che il rosa poteva essere associato tanto ai neonati maschi che alle femmine. Nel 1918, Earnshaw’s Infants’ Department, rivista specializzata in vestiti per bambini, specificava anzi che “la regola comunemente accettata è che il rosa sia per i bambini, il blu per le bambine. Questo perché il rosa è un colore più forte e deciso, più adatto ad un maschio, mentre il blu, che è più delicato e grazioso, è più adatto alle femmine”. Nel 1927 la rivista Time pubblicò un grafico che confermava questa tendenza e mostrava i colori più appropriati per maschi e femmine secondo i principali produttori e venditori di vestiti negli Stati Uniti. Tra gli anni Trenta e Quaranta le cose iniziarono, però, a cambiare: gli uomini cominciarono a vestire con colori sempre più scuri, associati al mondo degli affari, per distinguersi dalle tinte chiare percepite come più femminili e legate alla sfera domestica. L’abbigliamento di bambini e bambine iniziò a venire differenziato in età sempre più giovane, anche a causa della crescente diffusione delle teorie di Freud legate alla sessualità e alla distinzione di genere. Si tratta ancora, però, in una fase incerta: per parecchi decenni, fino alla Seconda Guerra Mondiale, i colori continuarono infatti ad essere usati in modo intercambiabile. Non è davvero chiaro come, ad un certo punto, negli anni Cinquanta, avvenne una precisa assegnazione dei colori: “Poteva andare diversamente, fu una scelta del tutto arbitraria” spiega Jo B. Paoletti all’interno del libro. Il rosa finì, così, per essere identificato con le donne e divenne onnipresente non solo nell’abbigliamento, ma anche nei beni di consumo, negli elettrodomestici e nelle automobili. Il rosa iniziò ad essere il colore prediletto delle bambine, affascinate dal mito di Barbie e dal suo mondo glitteroso. Fu il movimento femminista degli anni Sessanta, nemico della bambola Barbie, troppo perfetta, troppo bionda, troppo sexy, proiezione della donna-oggetto, che ha come massima aspirazione fare shopping e cambiare spesso abiti, che iniziò a mettere in discussione con forza gli stereotipi di genere. Le donne iniziarono ad adottare stili più neutri, privi di dettagli riconducibili al sesso. Ma come molti di noi ben sanno, nonostante le numerose vittorie del movimento femminista, molte delle regole associate ai diversi ruoli ed agli stereotipi legati alle differenze del genere non terminarono, ed infatti, a partire dagli anni Ottanta, finì per imporsi definitivamente l’idea dei colori che marcatamente segnalano il genere d’appartenenza. Scomparvero i vestiti unisex ed anche i giocattoli si differenziarono: soldatini e costruzioni per i maschi, bambole e pentoline per le femmine. Fu proprio a partire da questi anni che le aziende iniziarono, inoltre, ad adottare vere e proprie strategie di marketing tese a rafforzare gli stereotipi per incrementare la vendita ed il consumo di beni per l’infanzia.
La parola “stereotipo” deriva dalle parole greco stereos (duro, solido) e tupos (immagine, gruppo), e quindi da “immagine rigida”, e si riferisce a delle rappresentazioni che le persone utilizzano per semplificare la realtà. Dal punto di vista cognitivo, quindi, gli stereotipi hanno la funzione di rendere più semplice ed intuitiva la rappresentazione e la comprensione della realtà, associando una serie di caratteristiche e di qualità ad un gruppo di persone o di oggetti, senza verificarne la veridicità, ovvero attribuendole a priori. Uno stereotipo, può essere definito, quindi, come una generalizzazione di alcune caratteristiche (generiche) a tutti gli appartenenti ad un gruppo. Questa tendenza, nella maggior parte delle volte, ci assicura una certa velocità di azione. Ecco perché è difficile che gli stereotipi si cancellino. Entrando nello specifico del tema dell’articolo, gli stereotipi di genere, sono quindi quei meccanismi di categorizzazione a cui le persone si riferiscono per elaborare ed interpretare la rappresentazione di ciò che è maschile e ciò che è femminile e si basano sull’aprioristica credenza che donne e uomini abbiano caratteristiche differenti. Ognuno di noi è implicitamente condizionato da queste credenze culturalmente trasmesse in quanto ognuno di noi ha due categorie mentali distinte denominate “maschile” e “femminile”, ognuna caratterizzata da specifici attributi. Secondo lo stereotipo di genere, le caratteristiche attribuite al maschile sono capacità di azione, di essere operativi, autoaffermazione, competenza, indipendenza, forza, virilità, individualità, più interesse per la vita sociale e pubblica. Le caratteristiche attribuite al femminile sono, invece, capacità emozionale, socialità, emotività, comunicazione, affettività, altruismo, interdipendenza, propensione a relazioni duali, dolcezza, delicatezza, soavità, tendenza alla gestione del proprio mondo intimo. Come si può notare questi due gruppi che racchiudono qualità che lo stereotipo attribuisce al maschile o al femminile, sono complementari. Ciò che secondo lo stereotipo non è femminile, allora è maschile. Un gruppo bilancia i punti di debolezza o di forza dell’altro gruppo. Gli stereotipi di genere, così come gli stereotipi in generale, non appartengono alla mente di un individuo, ma sono condivisi dall’intera società. Permettono alle persone di intendersi fra loro e soprattutto di prevedere i comportamenti altrui e dare un’organizzazione (rigida) del tessuto sociale. Una società mantiene e trasmette i suoi stereotipi tramite il linguaggio, tramite tutti i linguaggi possibili: l’utilizzo del colore è proprio uno di questi linguaggi.
Proprio per questo in America esiste addirittura un movimento chiamato Pinkstinks, che porta avanti dal 2008 una vera e propria battaglia contro il rosa. Secondo questo movimento il rosa, infatti, non è un semplice colore, ma racchiude in sé uno stereotipo di genere considerato nocivo per il sesso femminile. Il loro scopo è quello di denunciare la cosiddetta “Pinkification”, ovvero il fenomeno di lavaggio del cervello a cui vengono sottoposte le bambine e le donne nella società occidentale contemporanea, imprigionandole in un mondo svenevole e sdolcinato, in cui esse vengono viste come soggetti deboli, superficiali e soprattutto incapaci di competere con la dura spigolosità delle grisaglie grigie. Sebbene però, la lotta contro gli stereotipi di genere e la loro pericolosità sia spesso associata al mondo femminile, non dobbiamo cadere nella fallace credenza che gli uomini ne siano esenti. Infatti, anche il genere maschile ha i suoi stereotipi con cui, o meglio, contro cui combattere. Non crediate che sia cosa facile confrontarsi con ruoli di genere quali coraggio, potere, lavoro, forza, successo, razionalità. Sebbene questi stereotipi possano essere più desiderabili, non sono meno faticosi da sopportare e ostacolanti rispetto ai mille e variopinti scenari che ognuno può impersonare. Ma l’immagine dello stereotipo maschile non è solo caratterizzato dagli elementi sopra citati: come se fosse cosa semplice percepire questa pressione verso un modello assoluto di forza, coraggio e successo, ci si mettono anche altri stereotipi ad aggravare ed appesantire il quadro: gli uomini, infatti, sono per la cultura main-stream, anche quelli sempre a caccia di donne, quelli che amano le macchine, quelli che se ne intendono di calcio, quelli palestrati e sempre in forma.
La questione fondante che a questo punto mi pongo, e che desidero condividere con voi, amiche e amici della PoT Agency è: quali sono i desideri e le possibilità che ogni persona fondamentalmente si perde a causa dell’attribuzione rigida di qualità e ruoli all’uno e l’altro genere? Come si può essere davvero liberi e libere in un mondo in cui ti chiedono di scegliere se stare o meno dalla parte di un colore in base al genere a cui appartieni? E se la vera rivoluzione fosse proprio quella che passa attraverso la libertà di non dover scegliere? E se fosse proprio ora il momento giusto per destrutturare ed archiviare gli stereotipi di genere?
Ora, in cui assistiamo ad un risveglio collettivo mondiale femminile, che si esprime grazie ed attraverso la lotta portata avanti dal movimento #metoo e di tutte quelle realtà che credono e parlano di liberazione, della forza di tutte le donne, nonché della celebrazione dell’autentica bellezza. Proprio ora, in cui sta esplodendo il fenomeno della “metrosessualità”, tipico della generazione di uomini dei nostri tempi, portatrice di canoni di una “sessualità metropolitana” che, a prescindere dal proprio orientamento sessuale, fonda il proprio ruolo di genere su una cultura ed una cura del corpo basati su un’immagine estrema e perfezionista, vincolata a centri e servizi estetici un tempo destinati solo alle donne.
Perché è ora il momento di iniziare la nostra rivoluzione. E per farlo inizierò con il citare le parole di un personaggio del celebre film “Tutto su mia madre” di Pedro Almodovar: “Costa molto essere autentica, signora mia. E in questa cosa non si deve essere tirchi, perché una è più autentica quanto più assomiglia all’idea che ha sognato di se stessa”. E se l’autenticità passa dal vestire e truccarsi di rosa, sia come uomini che come donne, allora ben venga. La stravaganza, infatti, è a volte fatta della stessa materia della libertà. E la libertà è il bene più prezioso che abbiamo. Quindi, anche noi della PoT Agency vogliamo credere nella rivoluzione del rosa!

Elisa Badiali

Credits:

Stilista abiti e gioielli: Floriana Alletto (Sun & Moon)
Fotografia: Valentina Pinto (La Veste di Sabbia Photographer)
Make Up Artist: Lucia di Meo (Smokey Make Up)
Hair Stylist: Morris Mattias Conti (Morris Fashionhair)
PoT Agency Models: Giulia, Isabella, Zaira, Alessandro, Federico, Morris,


I SOGNI SON DESIDERI…

Ci sono bambini che sognano di fare da grandi gli astronauti. Bambine che desiderano diventare ballerine. Io, all’età di otto anni, ero certa che avrei intrapreso la carriera da Pubblico Ministero.

Sono sempre stata considerata una “strana”, “wierd” come si dice in inglese, per il mio modo di comportarmi, parlare e relazionarmi, che veniva vissuto da quasi ogni persona come “diverso”. E questo, per molto tempo, è stato un serio problema, non solo per me, ma anche e soprattutto per chi mi amava. La sofferenza dovuta alla sensazione di non essere accettata, però, non mi ha mai portato a voler scendere a compromessi, a sperare di poter cambiare la mia natura, o a desiderare di plasmare me stessa secondo le regole e le convenzioni che la società riteneva giuste e migliori. Al contrario, col passare degli anni ho iniziato a sentire l’esigenza dentro di me di portare avanti i miei sogni, i miei veri desideri, valori e principi. Sempre coerente con ciò in cui credevo, non sono mai riuscita a smussare gli angoli, ad accettare situazioni per quieto vivere. Ho fatte mie, cause e lotte in cui ho sempre scelto di metterci la faccia, di lottare in prima linea, in modo da mettere in pratica, nel mio piccolo, l’insegnamento del grande Maestro Mahatma Gandhi: “Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo”. Ricordo che l’apice dell’impegno attivo per la ricerca di una giustizia sociale nel mondo, lo raggiunsi nel periodo in cui frequentavo le scuole superiori. In quegli anni, oltre a confrontarmi con persone di tutte le età, etnie e provenienze sociali, amavo passare ore ed ore a leggere e scrivere. Fu così che ebbi la fortuna di imbattermi nel libro del 1999 di Erica Jong “Cosa vogliono le donne. Potere, sesso, pane e rose”, in cui la celebre autrice affronta il tema della posizione e del ruolo della donna nella società contemporanea, attraverso il racconto di aneddoti autobiografici, ritratti di personaggi, reali e letterari, ed episodi di cronaca riuniti ad illustrare temi come la maternità, il sesso, il potere, i mass media, le difficoltà di essere donna e scrittrice, l’Italia e gli italiani, il senso e i limiti della chirurgia plastica. Quello della scrittrice, rappresenta un vero viaggio dissacrante e anticonformista nell’universo femminile dei nostri giorni alla scoperta delle donne di oggi: chi sono, cosa vogliono e soprattutto cosa non vogliono! Grazie a questo libro e a molti altri che hanno segnato la storia del pensiero femminista, ho iniziato a ragionare su quelli che sono i desideri ed i sogni indotti dalla società, soprattutto per noi donne del mondo occidentale. La storia ha da sempre sottovalutato o ignorato noi donne. E quello che di noi è stato raccontato ha dovuto subire la selezione dello sguardo maschile. L’immagine che è stata data da parte dell’industria culturale, dei mass media e dei talk show, della moda e dello spettacolo, mostra quella che potremo definire il tipo ideale di donna imposta dalla società: giovane, leggera, madre, moglie, bella secondo alcuni standard predefiniti. In contrasto con questa immagine di donna spensierata, esiste quella protagonista delle notizie di cronaca. Una vittima di stupri e di violenze domestice; citata per temi quali l’aborto, l’utero in affitto e la prostituzione; coinvolta in problemi sociali quali l’anoressia, le mutilazioni genitali nel terzo mondo, etc..

Da qualche tempo, però, le ombre su quale possa essere il posto delle donne nel mondo, si sono via via diradate e si moltiplicano i libri scritti da donne sulle donne: intellettuali, scienziate, artiste, sportive, scrittrici e poetesse, donne ribelli, abili politiche, professioniste ed imprenditrici. Esistenze che ricompongono un mosaico di un universo femminile, comunque ancora poco conosciuto, assemblato con approcci diversi, punti di vista differenti, ma sempre attento a far conoscere talenti e sapienze troppo a lungo circondati dal silenzio.
Scrivendo questo penso a Lucia Votano, che tra il 2009 e il 2012 è stata la prima donna a dirigere i laboratori del Gran Sasso dell’Istituto nazionale di Fisica nucleare, che lavora in luoghi estremi come i ghiacciai polari o profondità marine, per portare avanti lo studio sui neutrini. O alle sorelle Irene, Ina e Anna Napoli, che in provincia di Palermo gestiscono una grande azienda agricola e stanno resistendo alla mafia che vorrebbe togliere loro la terra. Oppure, alla direttrice generale di Smart Dubai, Aisha Bin Bishr, che prevede la completa digitalizzazione della burocrazia entro il 2021 e che dichiara: “Se non affronto nuove sfide mi annoio”. Questi sono solo alcuni esempi di donne di oggi, coraggiose, impegnate, che contribuiscono al progresso della società. Ma in Italia di loro non si parla, o comunque se ne parla troppo poco. Sui media, infatti, dovrebbe emergere una rappresentazione della donna in grado di cambiare il mondo grazie alla propria passione, al proprio talento ed alla propria attività. La dicotomia bella-donna che fino ad ora è stata fonte di angoscia, deve riuscire a far posto ad un’immagine positiva, unico antidoto allo stato di cose. Molte ragazze oggi, dovrebbero poter aspirare, non solo alla copertina di una rivista di moda o ad ottenere ruoli centrati sul bell’aspetto, ma a rivendicare la prima pagina del Time, così come è stato per il fisico Fabiola Gianotti nel 2012.

Cenerentola cantava: “I sogni son desideri”. E noi bambine cresciamo così, con l’idea di dover diventare brave principesse, in attesa del nostro principe che verrà a salvarci. E a quel punto per noi la storia finisce con il suo “The End”. Ma questa è solo una favola che ci hanno solo raccontato. Non è, e non deve per forza essere, la nostra realtà.

Il Red Carpet di uno dei più famosi eventi internazionali: la Festa del Cinema di Roma.
Anche questo è un desiderio comune a molte donne e molti uomini. La verità è che non era un sogno per me. Almeno non lo era prima di fondare la PoT Agency, prima di essere stata invitata a sfilare sul famosissimo tappeto rosso dall’amico e cliente dell’agenzia, il produttore bolognese Paolo Maria Spina. Poi, nei giorni dedicati ai preparativi per il grande evento, ho compreso l’importanza dell’opportunità che mi veniva data: mostrare tutto il lavoro, lo sforzo, l’impegno ed il talento che c’è dietro le quinte della preparazione anche solo di un singolo evento. La possibilità di arrivare ad un pubblico vasto e raccontare della mission che l’agenzia persegue, del modo innovativo in cui lo facciamo e dei valori che sono alla base del nostro metodo di lavoro.

A volte i sogni arrivano senza che siamo noi a controllarli. A volte sono loro a parlarci, per farci capire qualcosa che il nostro subconscio ha solo percepito, ma di cui, forse, non eravamo ancora pronti ad accettare.
Per accettare, ad esempio, che anche una donna impegnata, attiva e femminista possa essere invitata alla Festa del Cinema di Roma e sfilare sul suo Red Carpet. E che proprio in quell’istante, nell’abito, nel make-up, nei capelli, nelle unghie, e negli accessori, possa racchiudersi un desiderio in parte raggiunto. Perché il mio sogno era quello di creare un “luogo” in cui le persone potessero collaborare insieme, ognuno col proprio talento, la propria passione e professionalità, per migliorare il settore creativo Made in Italy.
Ed io ho creato la PoT Agency.

Elisa Badiali

Credits:

Stilista e abito: KristalB
Hair and Nails: Ego Fashion Look
Accessori: Irene Russo
Stylist per gli accessori: Fiorentina Sandullo


C’era una volta...

“Non è mai troppo tardi
per diventare quello
che vuoi essere”
George Eliot

 

Ricordo ancora la sera in cui scrissi la mia prima poesia. Avevo sei anni, sedevo sul tavolo del soggiorno di casa dei nonni, dove io e mia madre abbiamo abitato nel periodo della mia infanzia.
Lei mi stava accanto e si occupava di altro. Ed io, come ero solita fare e come avrei fatto negli anni a seguire sempre più spesso, mi concentravo sulle matite, i colori, i fogli e tutta la cancelleria che esercitava su di me un fascino primordiale, atavico. Quella sera composi un testo semplice, pochi capoversi, ma che ancora ricordo a memoria e mi commuove. Non scrissi più in versi dopo allora, mi dedicai alla prosa, per via dei miei studi, delle mie letture e della mia predisposizione alla saggistica. Ma credo sia stato quello il momento in cui ho capito che nella vita la scrittura sarebbe stata parte di me.

Passati i trent’anni una donna si trova a dover fare una sorta di bilancio di quella che è stata la propria vita. E se mi chiedessero di guardarmi indietro, e dire in poche parole ciò che mi descrive, sicuramente risponderei lo studio. Credo di non aver mai smesso, infatti, da quando lo ricordo, di maneggiare libri, riviste, paper, tutto ciò che trovavo nel mio cammino e che poteva farmi conoscere, scoprire, i pensieri che erano stati scritti, le scoperte fatte, i sogni messi da altri nero su bianco. Le parole e le immagini hanno sempre costituito il mio mondo interiore. Un mondo fatto di personaggi illustri, donne celebri, autori classici, radicali e rivoluzionari più o meno contemporanei, che a me parlavano come fossero in carne ed ossa. Ho sempre creato con loro una relazione che mi portava a viverli come reali. Un mondo immaginario, per il resto delle persone che mi circondavano, ma che per me è, da sempre, il piccolo ecosistema in cui tutto era possibile.

Credo che sia questa mia predisposizione, questo vivere un mondo fatto di pensieri e parole, che mi ha portato a dedicare allo studio ed alla ricerca tanti anni della mia vita. E col tempo ho capito che, in particolare, era la sociologia l’ambito in cui non solo riuscivo, ma in cui brillavo, in cui mi sentivo me stessa, davvero. Studiare la società, i suoi fenomeni, i mutamenti e trasformazioni, è sempre stato per me “naturale”. Non mi sono, però, mai limitata a leggere ed imparare, mi sono sempre approcciata in maniera critica a tutto ciò che man mano studiavo e scoprivo. Imparare, poi, la metodologia e la tecnica di ricerca è stata la grande svolta della mia vita. Sporcarmi le mani sul campo, come diceva l’illustre Achille Ardigò, confondermi nei gruppi che analizzo, capirne le ragioni, cercarne le logiche, tutto mi è sempre risultato “familiare”, come se fosse parte di me.

Per questo, la vittoria della borsa di studio di dottorato a Bologna, la scelta da parte del Capo Dipartimento dell’Università di Cambridge di finanziarmi un periodo di visiting per condurre la mia ricerca all’estero, e tutti gli altri obiettivi che ho raggiunto negli anni sul lavoro, li ho sempre vissuti come traguardi parte di ciò che semplicemente pensavo essere il mio destino, del normale corso delle cose. Immaginavo che la ricerca e, in particolare, l’accademia, fossero il mio habitat naturale, il mezzo attraverso il quale avrei trasferito in pratica ciò che da sempre viveva la mia testa. E così gli anni passavano, i lavori che svolgevo si sommavano, ed io non mi fermavo mai ad interrogarmi su quello che sarebbe stato il mio futuro. Perché semplicemente era già scritto, ed io lo stavo solo vivendo.

Un giorno, però, il castello di carta che avevo costruito è crollato. E’ bastato un soffio, impercettibile agli altri, che, però, come una dotato di una forza superiore, è riuscito a devastare ogni mia certezza. Ricordo come se fosse oggi il periodo successivo a quando capii che tutto, nella mia vita, sarebbe cambiato. Guardavo le persone passeggiare per le strade di Bologna, ignare di ciò che mi stava accadendo. Il mondo continuava a ruotare attorno al suo asse, le stelle a brillare la notte, la luna a mostrarsi ogni volta con una faccia diversa. Solo i miei familiari e gli affetti a me più cari conoscevano i fatti e ciò che mi era accaduto, ma nonostante ciò mi sembrava che nemmeno loro potessero davvero capire. D’altronde come potevano farlo se nemmeno io avevo la minima idea di cosa mi stesse capitando? Chi ero io quindi? Quale sarebbe stata la mia vita ora che la mia carriera, il mio lavoro, e tutto ciò che avevo da sempre costruito era perso per sempre?
La vita ci sorprende sempre. E’ stata la più grande lezione che ho imparato. Questa e quella che mi ha fatto capire che la vera scelta che ogni giorno, quando apriamo gli occhi e decidiamo di iniziare la nostra giornata, ci troviamo a compiere, è semplicemente questa: vivere o morire. Ebbene si. Vita o morte, eros o thanatos, yin e yang. Due parole di cui avevo sempre letto e scritto, ma di cui non avevo capito, davvero, il significato prima. Perché non possiamo forse mai conoscere appieno ciò che non esperiamo. Dopo quel periodo, fatto di sconforto, depressione, delusione, ansia, invece, mi è stato chiaro. La vera magia sta nel capire che il segreto sta tutto nell’accettare che la vita, se decidi di viverla, va vissuta per quello che è, una sorpresa continua, che ogni giorno ci chiede di essere pronti a giocarci le nostre carte e ricominciare.

E così, passo dopo passo, ho deciso di ricominciare. Ho iniziato a propormi come consulente, consapevole delle difficoltà che esistono in Italia per chi come me si affaccia al mondo profit con un curriculum fin troppo titolato, senza nessuna conoscenza o relazione da poter utilizzare e, per mettere la ciliegina sulla torta, un carattere indomabile e poco incline alla subordinazione. Un inizio niente male, insomma, per una donna che si affacciava alla trentina e che vuole riprendere in mano la sua vita lavorativa. Eppure qualcosa si muoveva, e la passione per il lavoro che svolgevo rendeva tutte le difficoltà più digeribili.

Nonostante questo, però, come andavano le cose non mi bastava. Dire che il tenore di vita che conducevo fosse cambiato è a dir poco un eufemismo. La continuità delle commesse che riuscivo a ottenere non era sufficiente. Non era solo la questione economica a non rendermi soddisfatta di come stavano andando le cose. Avevo fin troppo tempo libero, pensieri e progetti che tornavano a muoversi e farsi vivi nella mia mente, voglia di conoscere gente e fare qualcosa che fosse davvero diverso per me e la mia nuova vita. E così feci qualcosa che nessuna delle persone che mi conosceva in quel momento capì. Presi il mio computer e risposi ad un annuncio in cui, in uno dei più famosi social media in Italia, cercavano modelle, e mi candidai per un casting. In realtà, avevo già fatto la modella da ragazza, durante gli anni di studio all’università, prima di dover lasciare quella passione perché non appropriata al lavoro da ricercatrice secondo le persone con le quali collaboravo. Ma era passato davvero tanto tempo e sicuramente non immaginavo che quel semplice gesto così azzardato, avrebbe cambiato il corso della mia vita.

Superai quel casting. E dopo di quelli ce ne furono altri. I casting, poi, divennero lavori che mi venivano commissionati direttamente dai clienti stessi. Dopo di ché, grazie le mie predisposizioni e i miei soft skills, diventai per le agenzie con le quali collaboravo una risorsa esterna da utilizzare anche come recruiter per altre modelli e modelli. Mi venivano proposti lavori e mi si chiedeva di trovare ragazzi e ragazzi disposti a candidarsi per i rispettivi casting, dandomi una percentuale nel momento in cui una delle persone proposta da me fosse stata scelta dal cliente. E’ così che ho iniziato a crearmi una cerchia fissa di agenzie con cui collaboravo. Grazie al mio lavoro da modella e quello da recruiter, riuscivo sempre meglio a capire i limiti, i problemi, le potenzialità e i punti di forza dei clienti, dei brand, dei lavoratori e delle agenzie del settore creativo in Italia. Più il tempo passava, più mi impegnavo a studiarne i comportamenti e i meccanismi, finché non arrivai a svolgere una vera e propria ricerca personale sul mondo dell’imprenditorialità creativa. Ancora inconsapevole, avevo fatto il primo passo verso il mio nuovo mondo del possibile.

Così è nato il mio progetto. Così nata la PoT Agency, una start up innovativa con sede a Roma e che opera in tutta Italia, per fornire servizi in ambito di imprenditorialità creativa “from Italy”, con lo scopo di tradurre le leve e le potenzialità dell’impresa artistica e creativa e delle persone che ne fanno parte, in termini di sviluppo economico, sociale, ambientale e culturale. La PoT Agency rappresenta una risposta concreta ai problemi e alle questioni che pervadono le attività dei lavoratori autonomi, delle piccole medie imprese ed in generale degli attori del settore culturale, artistico e creativo. E’ in grado di svolgere un ruolo polifunzionale tale da garantire un’offerta differenziata da parte di un unico interlocutore, capace di rispondere alle esigenze plurime tipiche di un mercato globale, garantendo alta qualità e professionalità, ma al tempo stesso, grazie ad un preciso schema organizzativo, flessibile ed innovativo modello di business, costi di mercato altamente competitivi, alla portata anche di coloro non potrebbero altrimenti permettersi la collaborazione con un’agenzia esperta in creatività, comunicazione e marketing non convenzionale. Sono, quindi, la capacità progettuale, efficace tanto sul territorio nazionale quanto sui mercati esteri, la consolidata competenza nel creare network, la marcata attenzione alla cultura d’impresa e dell’imprenditorialità, l’attenzione rivolta alla qualità e alla professionalità, la centralità attribuita al valore della persona e del lavoro, nonché i valori che sono parte integrante della corporate mission statement, che rendono la PoT Agency una realtà ed un brand competitivo a livello internazionale.

Eisa Badiali