Stefania Visconti

Stefania Visconti è attrice, modella e artista trasformista queer. Originaria della provincia di Rieti, per la precisione di un paese che si chiama Cittaducale, dove trascorre un’infanzia serena e felice circondata dall’affetto della sua famiglia. Laureata in Lettere, indirizzo Arti e discipline dello spettacolo, all’università La Sapienza di Roma. Consegue un master di specializzazione in Risorse Umane che la portano a ricoprire il ruolo di responsabile delle risorse artistiche in un’associazione culturale. Intraprende la strada dello spettacolo studiando e diplomandosi a Cinecittà Campus per la direzione artistica di Maurizio Costanzo, consegue un diploma teatrale dopo aver frequentato il corso annuale Itinera a cura della regista e attrice Sabina Calvesi, si diploma all’Accademia della Comicità diretta da Gegia, segue un corso per drag queen tenuto dall’artista Senith Genderotica e un corso di heels dance tenuto dal maestro Germoglio di Single.

 

Tra i lavori più rappresentativi c’è sicuramente la partecipazione al cortometraggio “Il Barbiere Complottista” regia di Valerio Ferrara, selezionato in numerose rassegne cinematografiche in tutto il mondo tra cui vincitore alla 75° edizione al Festival di Cannes nella sezione La Cinef, vincitore al Festival de Cine Italiano de Madrid e al Pulcinella Film Fest, selezionato alla Festa del Cinema di Roma, al Denver Film Festival negli USA, al Med Film Festival e molti altri.

 

La vediamo ricoprire il ruolo da protagonista di “Pierre” nel videoclip musicale omonimo dei Pooh per la regia di Cosimo Alemà. Partecipa a molti altri video tra cui “Piccoli dettagli” di Giusy Ferreri per la regia di Roberto Saku Cinardi, “Chiave” di Ultimo per la regia di Emanuele Pisano, “Scusate per il sangue” di Low Low e Mostro per la regia di Emanuele Pisano e Maurizio Ravallese e “Revenge” del cantautore Nickis Fabbrocile. La sua storia è presente nel libro “Le cose cambiano” a cura di Dan Savage e Terry Miller edizione italiana a cura di Linda Fava, uscito con il Corriere della Sera e in tutte le librerie (tra le testimonianze del libro troviamo Barack Obama, Hillary Clinton, David Cameron, Anna Paola Concia, Aldo Busi ecc.). A teatro interpreta vari ruoli in spettacoli a volte provocatori come “Perversioni sessuali a Roma” per la regia di Roberto D’Alessandro e “La differenza” di Roberto Braida per la regia di Renato Capitani. È Carlà nella serie “TRANS” di Marco Costa che affronta in maniera ironica il caso Marrazzo, è Stefy makeup nella web-serie di successo a tematica gay “TRIS” per la regia di Doni Corrado. Attrice di numerosi film indipendenti e cortometraggi come “Undercover Mistress” regia di Giulio Ciancamerla (selezionato ufficialmente in sessanta festival internazionali di cortometraggi e vincitore di dieci premi tra cui miglior attrice protagonista a Stefania Visconti). Partecipa anche al film “Magnifica presenza” di Ferzan Ozpetek. La vediamo nello spot  Winner Taco Algida e ospite in programmi televisivi tra cui “A gentile richiesta” su Canale 5 condotto da Barbara D’Urso dove racconta la sua storia facendo coming out in diretta. Dal 2022 collabora con Cusano Italia TV ricoprendo vari ruoli in alcuni programmi. Modella per fotografi nazionali e internazionali in Italia, Europa e negli Stati Uniti come Matteo Basilè, Cesare Colognesi, Erica Fava, Eolo Perfido, Coniglio Bianco, Dido Fontana, Bradford Rogne, Austin Young, David Serrano, Davey Tyler e tanti altri. Alcune immagini provocatorie che la ritraggono hanno suscitato reazioni con discussioni accese. Esempio eclatante “Jesus Gay” dell’artista Pino Lauria esposta al Museo Civico di Potenza provocando la creazione di un gruppo di preghiera davanti l’ingresso del Museo. Un’altra foto è spunto di riflessione e confronto con il capo dell’Opus Dei in diretta televisiva su Canale Italia. Negli ultimi anni organizzatrice di eventi artistici e curatrice di articoli culinari sulla rivista mensile “Così in Cucina”.Direttrice artistica di un evento d’arte dal nome “Stefan-io” arrivato alla quinta edizione con l’esposizione di opere e atti performativi in gallerie a Roma come ad esempio “Up Urban Prospective Factory”. Protagonista di performances all’università La Sapienza di Roma nella facoltà di Lettere e al Macro  – Museo d’Arte Contemporanea di Roma.


La community di POT si allarga ai soci e alle socie di RETE DOC

Ciao a tutti amici e amiche di PoT Agency!!!

Oggi farò un annuncio molto importante per me, ma soprattutto per tutte e tutti voi che mi seguite con tanto affetto, e spiegarvi perché, da un po’ di tempo, vedete i miei video, post e storie collegate alle persone ed alle attività di Rete Doc.

Partiamo allora dall’inizio…

Rete Doc è una comunità di oltre 8.000 professionisti della cultura, dello spettacolo, della creatività e dell’innovazione tecnologica organizzati in rete e, attraverso la quale costituisce un modello di impresa cooperativa che moltiplica le opportunità e la competitività e favorisce l’incontro fra persone.

Da oltre trent’anni svolge servizi e gestisce eventi di qualità nei settori artistico, culturale, creativo, del turismo, della comunicazione, della formazione e della tecnologia.

Perché sono diventata, non solo dipendente, ma anche e soprattutto, socia lavoratrice della Rete Doc e perché da oggi sono orgogliosa di proporre i suoi servizi, progetti ed eventi anche a voi della community e che mi seguite come PoT Agency?

Perché credo che il modello di Rete Doc sia davvero vicino allo spirito di PoT Agency.

Perché entrambi puntano sull’innovazione digitale, sulle nuove tecnologie e modelli di comunicazione come strumenti fondamentali per gestire i professionisti, le attività e far crescere progetti che mettono sempre la persona al centro.

Perché il modello d’impresa cooperativo alla base di Rete Doc è stato creato per accrescere la competitività ed i vantaggi di tutte e di tutti, perché, facendo rete, si possono condividere i costi e redistribuire equamente le ricchezze generate.

Ma, soprattutto, perché sia PoT che Doc, condividono la visione degli obiettivi previsti dall’Agenda 2030 ed entrambi si prefiggono di impegnarsi, in particolare, per: l’inclusione, la parità di genere, la riduzione delle disuguaglianze, la responsabilità sociale ed ambientale, la formazione continua, il riconoscimento del valore del lavoro e lo sviluppo sostenibile.

Lavorare in ambito culturale, creativo, dello spettacolo, dell’innovazione, della ricerca e della formazione ed entrare a far parte di Rete Doc, significa ottenere dei veri vantaggi e godere delle opportunità che la cooperazione fra pari offre.

La Rete, infatti, è capace di unire la tutela e la sicurezza della persona all’autonomia e la libertà dell’essere freelance.

Nella pratica, significa poter lavorare in tutto il territorio nazionale ed internazionale, potendo usufruire di tutti i servizi creati per facilitare la vita ed il lavoro negli ambiti della cultura dello spettacolo, della creatività e dell’innovazione come ad esempio: personale contabile, fiscale ed amministrativo di altissimo livello e qualità dedicato, un’agenzia viaggi, un team di professionisti esperti in bandi e progetti e tanto altro ancora.

Ed anche per chi è solo all’inizio della propria attività, e sogna di dar vita ad un progetto imprenditoriale o a fondare una start up, da solo o in team, il supporto da parte della Rete è garantito, grazie a servizi e consulenze specializzati, che offrono un accompagnamento a 360°.

Da oggi, quindi, ai voi cari amici e amiche della PoT Agency, si uniscono anche gli amici e le amiche della Rete Doc. Ed, insieme, continueremo nel viaggio alla scoperta e alla valorizzazione del talento creativo e culturale Made in Italy.

Elisa BADIALI 


Dare voce a chi non ce l’ha

Dare voce a chi non ce l’ha

La maggior parte di noi ogni giorno si sveglia, si alza dal letto e inizia la propria giornata comunicando i propri pensieri e bisogni, contando meccanicamente sulle capacità della mente e su quelle del corpo. I nostri cinque sensi e gli stimoli a loro connessi fanno parte di noi da sempre; così, facilmente dimentichiamo che purtroppo non è vero per tutti: molte persone, per esempio, soffrono di patologie che non permettono loro di usare la voce. In passato chi non parlava o non poteva farsi capire è rimasto isolato, rinchiuso nel proprio mondo perché incapace di farsi comprendere appieno.

Negli ultimi anni, molte menti tra cui quelle creative si sono messe al lavoro per trovare soluzioni che fossero d’aiuto a chi non ha voce, a chi l’ha persa o a chi non può sentirla.
In che modo la creatività ha fatto la differenza?

 

  • Progettando nuovi alfabeti.
    La LIS, Lingua italiana dei segni è emersa spontaneamente e si compone di segni di natura visivo – gestuale che coinvolgono la parte superiore del corpo, in particolare il testa, il viso e le spalle. Il riconoscimento ufficiale di questa lingua e la denominazione lingua dei segni italiana si devono alla comunità scientifica che, attraverso uno standard internazionale, la ha distinta rispetto alle altre forme di comunicazione simili come la gestualità che accompagna il parlato.
    La LIS è codificata, possiede una sintassi, una morfologia, una fonologia e si insegna all’università.
  • Progettando strumenti parlanti.
    È nata la comunicazione assistita che grazie ai comunicatori con uscita in voce, strumenti di supporto a chi non può emettere suoni e App dedicate permette di esprimersi a chi non può usare le parole. Esiste una Banca della Voce a cui è possibile donare parole attraverso una App specifica: https://www.telethon.it/storie-e-news/news/dalla-fondazione/unaparolapernemo-ecco-come-donare-la-tua-voce-a-chi-lha-persa/ e App speciali che consentono di parlare e comunicare i propri pensieri grazie alla tecnologia: https://www.aisla.it/my-voice-la-voce-diventa-dono-di-speranza-per-le-persone-con-sla/Questi strumenti prodotti da persone che hanno osato guardare oltre ciò che già esisteva e pensare fuori dagli schemi aiutano il mondo a girare meglio.

 

Elisa Gattamorta è una copywriter freelance che lavora su storie e progetti continuando a credere che la creatività faccia la differenza.
https://www.linkedin.com/in/elisa-gattamorta/


Selva Silvia Barbieri

Sono Selva Silvia Barbieri, Fashion Designer di Mercogliano (Avellino). Ho studiato Design della Moda all’Accademia della Moda IUAD (Napoli) e a Marzo 2022 ho presentato una tesi sperimentale intitolata “Modellistica sperimentale adattiva per un corpo maschile non deambulante”.

L’assenza di abbigliamento adattivo, nel mercato italiano, è stata la ragione principale che ha motivato questa mia scelta.

Ho analizzato i problemi, appreso i bisogni e sperimentato le possibili soluzioni (riguardanti soprattutto un mio caro amico, affetto da distrofia Muscolare di Duchenne. Gerardo Santoro, mi ha ispirato e insegnato tanto).

Il mio lavoro si basa sull’osservazione antropometrica e la documentazione di    interviste e  prove prototipo, ponendomi l’obbiettivo di elaborare una nuova modellistica adattiva per avviare una produzione di abbigliamento che, oltre a facilitare la vestizione e la svestizione, riesca ad avere un’identità inerente con le mode e i trend del momento.

La moda è uno strumento potente, capace di migliorare la vita delle persone che hanno problemi motori. Non deve essere solo una questione di forme, linee e tagli!

Il mio lavoro non è volto a sensibilizzare gli animi ma ad eliminare barriere che spesso, invece di risolvere un problema, lo evidenziano.

-A Luglio 2022 ho partecipato agli Italian Fashion Talent Awards, portando a casa il premio “Livia Gregoretti Showroom” che mi ha permesso di esporre, durante la Milano Fashion Week di Settembre 2022, la mia prima collezione adattiva.

Ho avuto l’onore di collaborare con campioni paralimpici:

Con Vincenzo Boni (campione di nuoto) ho avuto l’onore di realizzare uno shooting subacqueo. Questo shooting rappresenta in pieno il messaggio della mia tesi. Molti mi consigliarono di realizzare una campagna di sensibilizzazione (pochi scatti con il ragazzo sulla sedia e  frase di sensibilizzazione) perché  l’editoriale di moda sarebbe stato difficile da realizzare . Questa cosa l’ho vista come una sfida. Poter eliminare ogni debolezza. Così ho pensato subito all’acqua.  L’acqua ha un potere magico e, in questo caso, permette la libertà di movimento per quasi tutti i corpi.  Già dai primi scatti sul posto ci siamo resi conto del raggiungimento dell’obiettivo. Il messaggio non è “anche noi possiamo” ma è “noi possiamo e basta”. Senza sottolineare differenze o debolezze.

-F.Designer/Stylist: Selva Silvia Barbieri

-Modello: Vincenzo Boni (campione di nuoto Paralimpico)

-Fotografo: Vittorio Alvino Corot

-Assistente Fotografo: Antonio Giaccio

-Location:Caravaggio Sporting Village

Ho avuto l’onore di realizzare un abito/tributo su misura ad Angela Procida (campionessa di nuoto) che ha indossato per ricevere il Premio Phenomena all’Aurum di Pescara.

Agli Italian Fashion Talent Awards 2022 ho avuto l’onore di far indossare e sfilare alcuni miei outfit da Emanuele Marigliano (campione di nuoto), Paolo Mangiacapra (Nazionale Italiana di sitting volley) e Vincenzo Pirone (campione di nuoto regionale).

A Novembre 2022  ho ricevuto un riconoscimento per il lavoro svolto da parte del presidente del Comitato Italiano Paralimpico Campania, Carmine Mellone, durante la Cerimonia di Consegna delle Onorificenze paralimpiche.

Dopo la mia tesi ho scelto di dedicarmi seriamente a questo progetto. È difficile ma ci credo pienamente. Il mio obiettivo è quello di poter presentare capi di abbigliamento PER TUTTI, senza creare categorie e differenze. Accessibile anche a livello di prezzi perché ho a che fare soprattutto con i giovani. Oltre a lavorare sulla modellistica, continuo ad intervistare ragazzi e ragazze da tutto il mondo per migliorare le ricerche per lo sviluppo dell’abbigliamento adattivo by Selva. Ho avuto modo di intervistare Tarik Rever (Texas, USA) influencer, social media marketer, model, attivista e cantante. Continuerò le mi ricerche anche per cercare di conoscere quanti più ragazzi e ragazze interessati ad entrare nella Community N.O.I Now Over Impediment.

Selva Silvia Barbieri


La bellezza e il talento: da strumento di controllo sociale a leva per l’empowerment femminile

Il concetto di bellezza, secondo l’enciclopedia Treccani è definito come quella qualità di ciò che appare o è ritenuto bello ai sensi e all’anima”[1]. Posso affermare, quindi, che la bellezza rappresenta un concetto astratto, legato all’insieme delle qualità, percepite tramite i cinque sensi, che suscitano sensazioni piacevoli e che attribuiamo a elementi dell’universo esistente ed osservato quali oggetti e suoni e come persone e concetti. Tale concetto si evidenzia durante l’esperienza, si sviluppa spontaneamente e tende a collegarsi a un contenuto emozionale positivo, in seguito a un rapido paragone effettuato[2].

Queste definizioni ci fanno comprendere come “la bellezza non è mai stata qualcosa di assoluto e immutabile, ma ha assunto volti diversi in relazione al periodo storico ed al Paese” (Eco, 2004).

La bellezza, inoltre, non è neppure una funzione dell’evoluzione: la competizione delle donne con altre donne attraverso la bellezza è l’inverso di come la selezione naturale agisce su tutti gli altri mammiferi. L’antropologia ha dimostrato, infatti, l’infondatezza del concetto per cui le donne dovrebbero essere belle per essere scelte per l’accoppiamento. Insomma, non esistono giustificazioni legittime, storiche o biologiche per il mito della bellezza (Wolf, 1991).

Eppure “c’è stato il bisogno di capire se esistesse una bellezza oggettiva e se fosse possibile tradurla in parole e criteri precisi. [E’ così che] nel corso del tempo la riflessione sulla bellezza è diventata un discorso sul corpo femminile e sulle misure che doveva avere per raggiungere l’ideale e per tenersi ben distante da quelle caratteristiche che l’avrebbero reso brutto o, peggio, mostruoso” (Gangitano, 2022). Possiamo affermare che le qualità che un certo periodo definisce come tratti di bellezza nelle donne sono solamente dei simboli del comportamento femminile che quel periodo considera desiderabili: in realtà il mito della bellezza prescrive sempre dei comportamenti più che un aspetto esteriore. Fu poi, a partire dall’epoca moderna, che il culto della bellezza è finito per rappresentare una forma di prigione: da quando le donne si sono liberate della mistica femminile della vita domestica, infatti, il mito della bellezza si è sostituito ad essa, espandendosi per portare avanti la sua opera di controllo sociale (Wolf, 1991).

Storicamente, prima della rivoluzione industriale, la donna media non poteva considerare la bellezza alla stregua di         quelle moderne. La famiglia era un’unità produttiva e il lavoro delle donne integrava quello degli uomini: per questo il loro valore risiedeva nel loro talento lavorativo, nella scaltrezza, nella forza e nella fertilità. Sul mercato del matrimonio la bellezza non era, perciò, una questione importante. Al contrario, a quei tempi, esisteva una classe ben definita di rappresentanti del sesso femminile che venivano pagate per la loro bellezza, composta da indossatrici, attrici, ballerine, ed accompagnatrici, ovvero da donne di bassa condizione sociale e soprattutto non degne di rispetto (Wolf, 1991).

Il mito della bellezza nella sua forma moderna è un’invenzione che risale al periodo dell’industrializzazione, tra il Settecento e l’inizio del Novecento, quando, con l’avvento del sistema fabbrica, è stata distrutta l’unità lavorativa della famiglia. In quegli anni, è sorta una nuova classe di donne, oziose ed istruite, dalla cui sottomissione alla vita domestica imposta dipendeva l’intero funzionamento ed evoluzione del capitalismo consumista. Il canone della bellezza, perciò, rappresentava una delle tante finzioni sociali emergenti[3] con la funzione principale di favorire questa nuova forma di controllo sociale.

La pressione sociale è aumentata, poi, con la scoperta delle nuove tecnologie, quando attraverso figurini, dagherrotipi, ferrotipi e rotocalcografie, iniziarono ad apparire per la prima volta immagini che riproducevano l’aspetto che dovevano assumere le donne.

Negli anni che seguirono il dopoguerra, quando la seconda ondata del movimento femminile ha portato le donne della borghesia a varcare la soglia di casa spezzando l’idea del focolare domestico, le finzioni che dovevano definire il loro ruolo naturale, si sono trasformate: liberate da tutte le limitazioni, dai tabù e dalle punizioni di leggi repressive, tipiche di imposizioni religiose e di schiavitù riproduttiva che non avevano più forza sufficiente, alle donne venivano ora imposti ora i corpi e i volti come simboli ideali da inseguire. Fu proprio in questo perioche che, quindi, un inesauribile lavoro sulla bellezza è subentrato a quello di casa. Mentre l’economia, la legge, la religione, le abitudini sessuali, l’istruzione e la cultura si aprivano forzatamente per includere più equamente le donne, una realtà privata colonizzava la coscienza femminile. Usando le idee sulla bellezza veniva ricostruito un mondo femminile alternativo con le sue leggi, il suo lavoro, la sua religione, la sua cultura, la sua sessualità, la sua istruzione, in maniera repressiva quanto il periodo precedente.

Con il passare del tempo, più le donne diventavano forti, tanto più prestigio, fama e denaro vennero concessi alle professioni d’immagine: queste ultime vengono sbandierate con sempre maggiore enfasi davanti agli occhi delle donne, per convincerle a competere. La bellezza è divenuta, in quest’ottica, una legittima e necessaria qualificazione per l’ascesa del potere di una donna. A partire dagli anni Ottanta appare evidente come, man mano che le donne diventavano più importanti, anche la bellezza diventa determinante. Quanto più si avvicinano al potere, tanto più si chiede loro un’autocoscienza fisica. Ed è così che una delle azioni più lungimiranti svolte a livello di controllo sulle donne è stato quello di stereotiparle per adattarle al mito appiattendo la femminilità al livello di bellezza-senza-intelligenza o, al contrario, intelligenza-senza-bellezza: alle donne è concesso avere una mente o un corpo, ma non entrambi (Wolf, 1991).

Analizzando questo excursus sul significato che la bellezza ha avuto sulla vita delle donne, voglio far comprende come, a partire dall’epoca moderna, l’autostima femminile sia stata determinata in gran parte da una competizione tra loro basata su caratteristiche fisiche rapportate ad un modello fisico ideale. Se davvero vogliono liberarsi e raggiungere un livello di parità sostanziale reale, le donne non hanno bisogno, quindi, solo di voti o di gruppi di pressione, ma anche e soprattutto di un nuovo modo di vedere. Questo passaggio potrebbe avverarsi grazie ad un nuovo modo di concepire la bellezza: da insieme di qualità fisiche o caratteriali, a un’espressione del talento personale e, in particolare, creativo.

La parola talento deriva dal greco “Talentum”, ovvero l’unità di misura di massa e peso corrispondente a 60 mine e a 6000 dramme. Il suo significato più noto della parola talento nel corso degli anni la fa corrispondere alla moneta di conto utilizzata nella antica Grecia ed in Palestina. Nella “Parabola dei talenti”, tratta dal Vangelo Secondo Matteo, i talenti venivano raffigurati come i doni che Gesù distribuisce ai servi del Signore, gli esseri umani. Ai giorni nostri, invece, il talento viene definito come “l’eccellenza di chi si segnala per le sue abilità in un determinato ambito”[4].

Una spiegazione più ampia che può meglio descrivere, cosa significhi la parola talento, è quella che la indentifica come quel processo creativo grazie al quale possiamo mettere in pratica la nostra vocazione ed il nostro potenziale. La “Teoria della Ghianda”, tratta dal libro “Il codice dell’anima” di James Hillman, può aiutare a chiarire cosa si intende quando si utilizzano i concetti quali vocazione e potenziale in relazione al talento. Lo psicologo junghiano, infatti, sostenne che: “Ogni individuo fin da bambino è come una piccola ghianda, racchiude in sé tutte le potenzialità sufficienti per poter crescere e diventare un maestoso albero di quercia”. Il potenziale umano, quindi, rappresenta l’insieme delle qualità del carattere che contraddistinguono ciascuno, ma che ancora non si traduce in potere, come se rimanesse sullo sfondo, sopito. Tutti noi nasciamo con una dotazione che ci caratterizza e che potenzialmente è sviluppabile per compiere azioni e per esprimerci in maniera ottimale. Tale dotazione varia da individuo a individuo per influenza di fattori genetici ed evolutivi. Secondo questa teoria, quando la vocazione si palesa, quando le condizioni contestuali e quando la volontà soggettiva sono idonee, è essa stessa che chiama a raccolta le potenzialità caratterizzanti l’individuo affinché vengano allenate e sviluppate attraverso l’azione, dando origine a quelle competenze o abilità che daranno piena espressione al talento.

Il talento, in questo senso, rappresenta il bene prezioso che può portare una donna alla piena realizzazione di se stessa attraverso l’attribuzione consapevole di senso e significato alle azioni che compie. Tali azioni, guidate da una forte motivazione intrinseca e consapevole, frutto di un intenso sforzo ed impegno costante, con l’influenza dell’ambiente sociale, relazionale e fisico in cui si vive (che può essere talvolta favorevole talvolta limitante), danno origine a prestazioni, prodotti o effetti che sono l’espressione massima e concreta del potenziale di cui ognuna è portatrice. Sono dunque la creatività, la consapevolezza e la capacità gli ingredienti che compongono ciascun talento. Talento che è come un’energia che ciascuna ha dentro di sé, che non si esaurisce con il passare degli anni, che non ha un’età anagrafica e che non va mai soffocata, che ci può condurre all’auto-realizzazione femminile. Come una forza, una risorsa più o meno nascosta, che ogni giorno ci dice che abbiamo sempre una possibilità. Ecco perché il talento può essere considerato come il tesoro più prezioso.

Ed ecco perché dovrebbe essere facile comprendere come, il passaggio da bellezza come forma di controllo sociale a leva per l’empowerment femminile, debba passare attraverso la valorizzazione del talento personale di ciascuna.

Questo spiega anche come mai, nel momento in cui mi sono trovata a dover decidere quale dovesse essere il nome ed il logo che avrei attribuito alla start up di innovazione sociale, mi fu subito chiaro che la scelta migliore fosse P.o.T. ovvero People of Talent!

Se è vero che tutti hanno un talento, qualcosa di speciale, un potenziale che esiste in ciascuno, virtù da realizzare, allo stesso tempo esiste una netta e sostanziale differenza: alcuni lo coltivano, mentre altri lo sottovalutano, trascurandolo. Non è casuale che in inglese la parola PoT tradotta in italiano significhi vaso. Il talento, infatti, è come un seme pronto a germogliare. Un seme che riguarda il saper essere, ovvero la forza del carattere, che aspetta di poter essere tradotto in nuovi comportamenti, nuove risorse. Più questo seme verrà annaffiato, giorno dopo giorno, più potrà crescere e diventare forte. Idea che ritroviamo nelle parole nel Vangelo di Matteo che recita: “Il talento è un dono ricevuto da rendere produttivo”. E nell’aforisma popolare di Thomas A. Edison, che sostiene: “Il genio è 1% ispirazione, 99% sudore”. Da entrambe le lezioni si può, dunque, trarre l’insegnamento per cui ciascuna è davanti alla scelta di liberare l’opera d’arte che custodisce dentro. Il talento, perciò, interpretato come dote particolare, concretamente visibile nel risultato eccellente di prestazioni di tipo operativo-produttivo oppure relazionale, non può esistere senza che vi sia un allenamento, un impegno, uno sforzo sistematico e volontario, atto a sviluppare le potenzialità trasformandole in competenze sempre più performanti e di livello.

La questione più importante, laddove il talento viene concepito come risultato di un processo di espressione creativa della vocazione e delle potenzialità di ciascuna, è comprendere come, solo grazie all’utilizzo di una intelligenza emotiva e di un approccio anch’esso creativo, sia possibile mettere a fuoco ed illuminare il talento di ciascuna. I migliori risultati in questo senso, infatti, possono arrivare solo se libere, indipendenti dai condizionamenti e preparate per agire verso l’obiettivo definito. Se per alcune questo approccio risulta più facile, per altre donne non è così naturale, poiché, come ho descritto sopra, gli ostacoli sono storicamente maggiori rispetto a quelli che incontrano gli uomini. Ciascuna di noi combatte, infatti, con molteplici i fattori che possono ostacolare questo processo, a partire dall’ambiente che ci circonda, fisico o relazionale, dalla volontà di attivarci ed impegnarci, dal timore del giudizio di chi ci sta attorno. E questo vale sia nella vita quotidiana che in ambito professionale.

Uno dei nemici più pericolosi per il talento è, quindi, la mancanza di autostima. Una bassa autostima, infatti, blocca sul nascere qualsiasi possibilità di riuscita, poiché non porta a mettersi in gioco per paura di non farcela. Per essere persone di talento l’ingrediente principale è credere in noi stesse e nelle nostre capacità. Solo quando crediamo in noi la nostra vocazione ed il nostro potenziale sono nelle condizioni di poter emergere.

Il talento è la potenza in atto, la realizzazione della nostra intelligenza embrionaria. E’ quel qualcosa di veramente unico che ognuno di noi sa fare e può fare. Ne consegue che non esiste un solo tipo di talento. E che ciascun talento diverso è ciò che ci distingue dagli altri. Ognuno ha una propria vocazione, che associato ad un processo creativo può portare alla piena espressione di sé stessi. Il talento, oltre ad essere unico, è anche non trasferibile. Ne deriva che è insensato paragonare i nostri talenti a quelli degli altri, poiché ciascuno custodisce un’essenza speciale che non può essere replicata. E credo che oggi, sempre di più anche in Italia, i parametri utilizzati nella ricerca del talento siano sempre più elementi quale: non convenzionale; non ordinario, unicità, genuinità, passione, etc. E’ questa constatazione mi ha portato alla scelta dello slogan, associato al nome dell’azienda, da me ideato con lo scopo di comunicare e rendere espliciti quanto più possibile i valori alla base della PoT. I temi ai quale ho deciso di dedicare perfino il payoff della mia creazione sono l’inclusione sociale e la valorizzazione delle differenze. Il paradigma fondato sull’inclusione rappresenta, infatti, l’evoluzione delle politiche per le pari opportunità e della responsabilità sociale d’impresa. Lo scopo è quello di perseguire il concetto secondo il quale ognuno debba rappresentare il modello migliore di se stesso e per questo lo stesso pay-off dell’agenzia recita: “As you want to be”. Desidero, infatti, diffondere e promuovere l’idea per cui diversità è bellezza. E che, come diceva il mito Coco Chanel, “Per essere unici bisogna essere diversi”.

Credo di non essere sola a pormi questo obiettivo che potrebbe risultare utopico. Grazie a studi sociali ed economici da me condotti a livello nazionale e ancora di più internazionale ho potuto constatare, infatti, come sia in corso una vera e propria rivoluzione, una nuova tendenza sembra intenzionata a premiare la creatività, a prescindere dagli ambiti in cui essa di esprime (la moda, il beauty, il design, l’arte, lo spettacolo, la musica, il cibo, etc.). Perfino quelli che fino ad ora sono stati visti dal mondo dell’industria culturale e della moda, come difetti e limiti, al contrario possono rappresentare dei veri e propri punti di forza e dei plus, in chiave di bellezza e personalità. La diversità è cool. Declinata in tutte le sue forme. Diversità rispetto ai canoni estetici che ci inchiodano a modelli stereotipati e irraggiungibili, facendoci sentire sempre inadeguati. Diversità come pluralità di facce, di colori, lingue, credo, culture. Diversità come emotività e intuizione, creatività e fantasia, cioè la complessità del fattore umano contro l’algoritmo delle macchine. Diversità come capacità di uscire dai binari e andare dove ci pare, anche se i cartelli indicano un’unica direzione, seguendo solo la voce del cuore. Un tema chiave questo credo in un modello di agenzia che non considera i difetti come caratteristiche da nascondere ma, al contrario, come punti di forza da mettere in primo piano. Bellezza e talento in questo senso prendono luce proprio grazie alle loro anomalie. In fondo che cosa ci rende più speciali di un ventaglio diversificato di difetti?! Come ha scritto il famoso scrittore Murakami, infatti: “Un certo tipo di perfezione si può raggiungere solo accumulando infinite imperfezioni.

E’ secondo questa visione che la PoT si pone lo scopo di promuove l’armonia, l’importanza della cura del sé, del sentirsi bene, in primis con se stessi. Come Fondatrice e Direttrice, desidero che la PoT faccia parte dei pionieri che in Italia credono e lottano per l’affermazione di questo valore a livello sociale, culturale, occupazione ed economico. Una parte del lavoro che svolge l’agenzia, quindi, in tema di supporto dei talenti, è un’attività che si basa sui concetti di empowerment e di self-confidence, mirata ad accrescere l’autostima e la fiducia in se stessi. Il talento si traduce quindi, diventando visibile, nelle cose che le donne scelgono di fare e, quindi, di essere. Sono tutte possibilità: strade possibili tra cui scegliere. E’ di solito una fioritura, quella del talento, che provoca gioia in chi la coltiva ed è sostenibile, genera energia ed effetti positivi. E allora, spesso, i talenti sono nascosti nelle cose che le donne fanno e che sono quando si sentono libere di scegliere. Il luogo in cui si esprime il talento si traduce nel cosiddetto “preferred self”: la dimensione di noi in cui ci sentiamo pienamente noi stesse e che, secondo lo psicologo William Khan, se portata al lavoro ci renderebbe più motivati, proattivi e disponibili alle relazioni [5].

 

Bibliografia

(2004) U. Eco, Storia della bellezza, Bompiani, Borgaro Torinese

(1991) N. Wolf, Il mito della bellezza, Arnoldo Mondadori Editore, Milano

(2022) M. Gangitano, Specchio delle mie brame. La prigione della bellezza, Super Opera Viva, Torino

(1996) J. Hillman, Il codice dell’anima, Adelphi

 

Per completare l’analisi del tema dell’articolo abbiamo intervistato per voi tre donne attivi in diversi settori dell’imprenditorialità femmile:

Valeria Ferri, Presidente “CNA area Ferrara”

Rossella Forlé, fondatrice “We Hate Pink”

Eleonora Rocca, fondatrice “Woman For Impact”

 

1) Ritieni che la maggior parte delle donne sia ancora vittima di una forte pressione e controllo sociale?

Valeria Ferri: “Ritengo, purtroppo, che sia uno dei mali più diffusi, che colpisce in maniera trasversale tutte le categorie femminili tramite stereotipi di varia natura ai quali sono associati i concetti di “considerazione” e, ancora più grave, di “accettazione”. I due concetti fanno leva sull’ansia sociale, sulla paura dell’isolamento e sul senso di pericolo dallo stesso derivante, sulla paura del rifiuto, se non quando, dell’abbandono”.

 

Rossella Forlé: “Assolutamente si, basta guardare i dati che rivelano la condizione in cui versano tutte le donne, nessuna esclusa, non solo in Italia ma nel mondo. La pressione e il controllo sociale si manifesta in molteplici aspetti dal controllo del corpo delle donne, all’accesso al lavoro, passando per la violenza di genere su donne di tutte le età e ceti sociali, in misure diverse. L’emancipazione femminile, infatti, è qualcosa che funziona a strati sociali. Le statistiche rivelano che in Italia meridionale, per esempio, i tassi di occupazione femminile sono estremamente bassi perché mancano le opportunità e molte sono costrette ad emigrare. Dove, infatti, le donne hanno più possibilità, vediamo che i tassi di occupazione femminile sono più elevati, ciò ci racconta che la donna, potendo scegliere (avendone le basi culturali e il supporto sociale) decide di emanciparsi e accettare la sfida di coniugare vita familiare e lavoro, perché, l’ennesimo stereotipo, suggerisce che sia la donna a restare in casa e badare ai figli. In tutte le società vi sono diseguaglianza e se ci soffermiamo ad osservare il ruolo della donna, vediamo che questa subisce un duro colpo negli strati sociali più deboli, nelle periferie e in determinate città d’Italia in cui vive ancora in una sorta di prigionia e di subordinazione all’uomo e alla società patriarcale”.

 

Eleonora Rocca: “Sicuramente, molte donne (auspico non la maggior parte!) sono ancora vittime di una forte pressione e controllo sociale. Quando si discute e ci si confronta su questi temi, ci si tende a focalizzare solo su argomenti come la violenza fisica, i maltrattamenti e gli abusi che purtroppo ancora oggi, un numero troppo elevato di donne subiscono. Dobbiamo però, per portare veramente un cambiamento reale, iniziare a mettere al centro del dibattito anche la violenza psicologica, verbale ma anche quella economica e finanziaria. Anche queste tipologie di violenze infatti hanno effetti negativi a breve ed a lungo termine e spesso è proprio da queste che si sfocia poi nella violenza visita. Per il raggiungimento dell’indipendenza e dell’equità, è fondamentale passare anche per questi dibattiti e naturalmente dalla formazione e dall’educazione”.

 

2) Consideri la bellezza fisica come una forma di controllo sociale sulle donne in particolare? Credi ci siano altri strumenti usati a livello sociale per minare la consapevolezza e il potere femminile?

Valeria Ferri: “Il concetto di bellezza spesso si limita ad una disquisizione sulla rispondenza fisica o su un dress code (più o meno imposto) basato su canoni prestabiliti, all’esterno dai quali si genera una spirale di insicurezza dai risultati spesso devastanti. L’unicità e la diversità, vere leve dell’evoluzione, vengono dirottate su concetti estetici o comportamentali superficiali che non entrano “nell’intimo” di una vera convinzione circa la loro enorme potenzialità; ciò si riscontra anche nell’esercizio delle professioni femminili, dove spesso non emerge un principio premiale in questo senso e viene, invece, valorizzato l’inserimento sistemico in un’ottica aziendale paternalistica. Creatività e inventiva vengono, così, ad essere ancora relegate ad alcuni ambiti, nei quali la società così “permette” la libera espressione delle potenzialità femminili”.

 

Rossella Forlé: “Le donne hanno sempre subito un enorme pressione nell’adeguarsi ai canoni di bellezza imposti dal contesto socioculturale di riferimento. E le ricerche condotte negli ultimi decenni, hanno dimostrato che l’esposizione alla continua pressione sociale verso la dieta, al fine di conformarsi all’ideale estetico di magrezza, pone le donne di fronte ad un rischio maggiore di sviluppare un grave disturbo alimentare. Alcuni studi evidenziano che i messaggi contenuti nelle riviste sono un elemento importante per lo sviluppo di un’immagine corporea negativa; riguardo a ciò, ad esempio, la semplice osservazione per alcuni minuti di fotografie di modelle magre da parte di ragazze adolescenti produce livelli maggiori di depressione, stress, vergogna, senso di colpa, insicurezza e insoddisfazione corporea di quanto non faccia l’osservazione di modelle di taglia media”.

 

Eleonora Rocca: “Penso che non sia un problema di “bellezza” in quanto tale ma di stereotipi. La nostra società è piena di bias cognitivi, molti dei quali sono talmente intrinsechi nella nostra società da essere quasi “accettati”. L’esempio più eclatante è quello delle calze “color carne” per ballerine che per anni sono state, in realtà, solamente di colore rosa. Come se per tutte il color carne dovesse equivalere al rosa. Ecco, dobbiamo riuscire ad uscire da questi antichi parametri imposti dalla società e rompere gli schemi mentali che alle volte abbiamo anche inconsapevolmente. Ed è per questo che ritorno a sottolineare l’importanza della formazione”.

 

3) Come credi che il talento personale possa rappresentare una delle leve per la libertà e l’empowerment femminile?

Valeria Ferri: “Come detto, credo che la valorizzazione del talento e dell’unicità sia lo stimolo principale per una “felicità” individuale che si riflette sia in ambito personale che lavorativo, e, in maniera più ampia, conduce ad una società più cosciente, responsabile e, quindi, più libera, con un effetto benefico globale”.

 

Rossella Forlé: “Il talento non è sufficiente, è necessario che le opportunità, per dimostrarlo e coltivarlo, siano equamente distribuite. Seneca diceva che la fortuna non esiste. Esiste il momento in cui il talento incontra l’opportunità. Sono cresciuta in una città di provincial della Puglia, non certo in una metropoli ricca di opportunità. E la mia è una famiglia di insegnanti, che mi ha trasmesso l’amore prezioso per l’etica e la cultura. Una famiglia normale senza grandi network o frequentazioni altolocate che mi ha sempre spronato a lavorare sodo. Avevo grandi sogni e tanta voglia di provare a realizzarli. Quindi sono cresciuta credendo fortemente nell’impegno ma sono stata costretta ad emigrare per realizzare i miei sogni, creandomi da sola le mie opportunità. Se, fino a prova contraria, il talento di cui parla Seneca è equamente distribuito tra uomini e donne, risulta evidente che non possiamo dire altrettanto delle opportunità. Quello che possiamo e dobbiamo fare per favorire l’empowerment femminile è lavorare per permettere anche alle donne di dimostrare e mettere a frutto il proprio talento ovunque esse siano, al nord e al sud del mondo”.

 

Eleonora Rocca: “Penso che ognuno di noi, donne e uomini, abbia un talento personale ma sono convinta anche che spesso facciamo fatica a capire qual è e soprattutto come sfruttarlo.

Per le donne poi, c’è un problema aggiuntivo, quello della sicurezza in se stesse. Spesso non ci reputiamo all’altezza, non mandiamo un CV perchè pensiamo di non avere tutti i requisiti, ci togliamo una possibilità perchè pensiamo che ci sia qualcuno migliore di noi. Ecco, dobbiamo iniziare a credere in noi stesse, nel valore del nostro talento ed questo che ci renderà più libere ma soprattutto più felici”.

 

4) In che modo le donne possono valorizzare il proprio potenziale personale ed acquisire maggior importanza anche a livello sociale?

Valeria Ferri: “Incominciando a non ascoltare gli stimoli esterni, ma anche interni (frutto di convinzioni falsate instillate sin dall’infanzia) che fanno leva sul senso di colpa e d’inadeguatezza, non facendosi abbagliare da un rassicurante senso di inclusione sociale basato sulla immobilità delle competenze e dei ruoli”.

 

Rossella Forlé: “Credo che esplorando e imparando a conoscersi a fondo sia davvero possibile valorizzare il proprio potenziale personale. Conoscenza di sé che spesso deve essere abbinata ad una consapevolezza del valore delle donne e della sorellanza tra le stesse. Per avere importanza a livello sociale dobbiamo sviluppare una coscienza sociale, in una prospettiva che valorizzi la cura in condivisione con altre persone e non incoraggi solo l’individualismo”.

 

Eleonora Rocca: “Beh di modi ce ne sono tantissimi. I due che vedo più spesso sono sicuramente: – la mentorship, come modalità di confronto tra donne che si aiutano, si spronano e si supportano a vicenda per cogliere il meglio l’una dall’altra. Non parlo solo di mentoring ma anche di riverse mentoring. Come una professionista può aiutare una giovane donna che sta per entrare nel mondo del lavoro così una ragazza appena uscita dall’Università può dare un punto di vista “altro” ad una manager più esperta e la community, come modalità di rafforzamento del proprio network e personal brand. Spesso quando si inizia un percorso si sottovaluta l’importanza della rete che invece è essenziale per la propria crescita professionale e personale”.

 

5) Secondo quali termini e modalità la diversità può rappresentare una forma di ricchezza e valore personale e sociale secondo te?

Valeria Ferri: “La diversità è il motore dell’evoluzione, senza la diversità non ci sarebbero stati gli stimoli socio-culturali su cui si sono basati i maggiori successi umani. La natura in questo è maestra, e ci mostra ogni giorno come tutto è in trasformazione e la trasformazione è tutt’uno con la biodiversità e il mutamento; l’immobilità e l’uniformità sono involutive, comportamenti contrari al progresso stesso, in ogni ambito”.

 

Rossella Forlé: “Ritengo che la diversità sia una risorsa insostituibile. Portare sul tavolo esperienze differenti, formazioni diverse aiuta a cambiare in meglio la percezione delle idee. Ognuno di noi ha un proprio modo di vedere le cose, che è influenzato dallo stile di vita, dall’ambiente familiare, dall’ambiente culturale nel quale ci si forma. E quando differenti visioni del mondo entrano in gioco, si scopre che i modi di pensare propri spesso sono limitativi e che un’apertura mentale porta a soluzioni più creative che beneficiano tutti. Vivo a Londra  da dieci anni e l’aspetto che mi ha sempre affascinato di questa città è la multiculturalità. La Brexit e i Tories non riusciranno mai a spegnere la bellezza multiculturale di quella che io considero la capitale d’Europa, seppure non ne faccia più parte”.

 

Eleonora Rocca: “La diversità è fondamentale e non lo dico per dire. Non c’è solo un discorso valoriale, legato all’importanza della diversità come strumento di arricchimento personale ma è anche un fattore legato al business. I dati dimostrano che i team diversificati registrano obiettivi migliori, questo proprio grazie alla diversità di pensiero che si va ad integrare. Esempi classici sono nello sviluppo dei software, quando sono presenti anche mancini all’interno dei team di sviluppatori oppure persone con disabilità se si parla di notare le barriere architettoniche che può avere un determinato spazio. La diversità è ricchezza, una ricchezza a tutto tondo!”.

 

[1] https://www.treccani.it/enciclopedia/bellezza

[2] https://it.wikipedia.org/wiki/Bellezza

[3] Risalgono agli stessi anni altre finzioni con la funzione del controllo sociale tipiche del periodo vittoriano, quali: la visione dell’infanzia come un momento di vita che richiedeva una costante sorveglianza materna; il concetto di una biologia femminile che imponeva alle donne della borghesia di rappresentare il ruolo delle isteriche e delle ipocondriache; la convinzione che le donne rispettabili fossero sessualmente “anestetizzate”; la definizione del lavoro femminile che imponeva loro di dedicarsi ad incombenze ripetitive, lunghe e meticolose. Tutte queste imposizioni avevano un duplice ruolo: dirottare su dei canali “innocui” l’energia e l’intelligenza femminili, nonché esprimere la creatività e la passione di quest’ultime.

[4] https://www.prometeocoaching.it/sviluppo-del-potenziale/potenzialita-capacita-di-apprezzare-bellezza-eccellenza/

[5] https://ilquotidianoinclasse.ilsole24ore.com/i-talent-show-la-musica-parlata-e-la-nostalgia-dei-dischi/bellezza-e-talento/

Elisa Badiali


Lasciami Accendere Le Stelle

BIOGRAFIA

Daniela Paiella

vive con il marito e i suoi due figli nel cuore dell’Umbria.

Ha studiato Scienze dell’Educazione e della formazione e partecipato a numerosi corsi di scrittura creativa.

Nel 2019 ha pubblicato il suo libro d’esordio Mai lontano da te, casa editrice Terre-Sommerse, riscuotendo un forte consenso di pubblico e il 30 novembre 2022 esce il suo secondo romanzo Lasciami accendere le stelle, edito Bertoni editore.

Crede fermamente nel coraggio delle donne e nella loro forza di rialzarsi nonostante tutto.

Ogni giorno esprime il suo amore per l’Universo e lo ringrazia, certa che ciascun istante sia un dono prezioso e che tutto sia davvero possibile.

 

Per i lettori della Pot-agency, in esclusiva:

(Tratto da una storia vera, almeno nei fatti più importanti)

“Scosto le coperte e mi infilo nel letto. Solo qui sarò al riparo dai mostri della notte. Cerco ovunque con la mano. Le lenzuola sono calde ma le sue braccia non mi stringono. Trattengo il respiro per distinguere un lamento, ma nulla più. Apro gli occhi e cerco di mettere a fuoco tutt’intorno. Il vestito da sposa della sua bambola ostacola la luce come al solito. Mi tiro su e lo sfilo dalla lampadina dell’abat-jour. Lo lascio scivolare sul comodino.

«Dove sei? Ho paura.»

Le dita nude si rannicchiano a contatto con i mattoni gelati. Un grido lontano mi percorre tutto il corpo come una scossa.

«Sono stata io!» mi esce in un sussurro che blocco nel palmo.

Ho buttato i colori a cera nell’organico. Li ho nascosti sotto le bucce delle castagne.

«Esci fuori per favore… Glielo dico che è colpa mia… te lo giuro.»

Mi siedo sul mio cuscino di traverso.

Fisso il soffitto e unisco le mani a preghiera. Lo so che sono una bambina cattiva, ma prometto che non lo farò più. Non disegnerò più sul muro. Prometto che non ripeterò le brutte parole e che non masticherò le caramelle o il pane dopo che ho lavato i denti. Non farò storie per andare alla scuola materna e non lascerò nessuna briciola nel piatto. Finirò anche il brodo che puzza di pollo e mi fa venire da vomitare. E se mia sorella non ce la farà, ci penserò io. Mangerò anche la sua minestra. Non servirà che i capelli le finiscano dentro come stasera.

Annuisco e cerco che l’ossigeno mi dia il coraggio. Mi puntello sul materasso e mi spingo verso la porta.

Una folata di vento mi fa rabbrividire e procedo in fretta. Sul corridoio le voci rabbiose dei miei genitori sembrano l’eco di una casa infestata dai fantasmi. Esito indecisa se tornare indietro, ma non voglio stare da sola. Li cerco in camera grande… non c’è nessuno. Vado dritta verso la luce che filtra sotto l’uscio della cucina. Lo spalanco e il neon riduce le mie pupille a punte di spillo. Strizzo le palpebre e mi appoggio allo stipite.

Mamma si volta verso di me.

«Torna subito a dormire amore!» implora con le guance rigate dalle lacrime. Ha i capelli sparsi sulla fronte. Tiene per il collo una bottiglia di quelle con il tappo di sughero.

Papà ha gli occhi rossi, fa un passo indietro, abbassa il braccio. Appoggia sul tavolo uno di quei coltelli che noi bambine non possiamo e non dobbiamo MAI toccare.

Un sasso mi blocca la gola. Deglutisco ma non si sposta. Sporgo il labbro inferiore e le gambe iniziano a tremare.

«Va’ da tua sorella!» ordina papà.

«Non la trovo… ho freddo e in cameretta la finestra è aperta.»

Un rumore di vetri rotti mi colpisce le orecchie e un pioggia di vino rosso schizza sul pavimento bagnando i miei piedini.”

 

DANIELA PAIELLA

Mi presento con questo prologo, sono una sognatrice che ha visto avverare il suo sogno con la scrittura. Le mie ali sono i libri e credo fermamente nella forza delle parole. Leggere e scrivere mi ha aiutata e mi aiuta ogni giorno ad affrontare le difficoltà e il quotidiano con leggerezza. “Che non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, senza avere macigni nel cuore”, come recita Calvino.  Ahimè, anche quando le esperienze sono più tragiche. E non sto qui a dire le mie, che ognuno di noi ha il suo fardello… Tuttavia ci tengo a sottolineare che non ho mai perso la fiducia nel domani, nei sentimenti e nelle persone. Il mio scudo è il sorriso. Vi assicuro che una bella dose di positività e autoironia è sempre un’ottima medicina.

Adoro osservare la gente. Molto nei miei libri è dipinto da ciò che vedo, ciò che sento, ciò che gli altri mi trasmettono. Guardare il prossimo negli occhi è indispensabile. Non credete anche voi? Io penso che li dentro ci sia la verità. Vi suggerisco di non smettere mai di farlo, perché è illuminante, come un gesto semplice, un saluto, un grazie, un “ti voglio bene” o un “perdonami”, una preghiera. E poi l’autenticità si riconosce, lo sguardo buono si vede. È quello che ti scalda, ti rassicura, ti garantisce che non resterai mai da solo o da sola.

Nonostante io mi definisca un’anima schiva che si rifugia tra le pagine dei suoi romanzi… credo che l’essenziale sia non innalzare mai muri chiusi, ma spalancarci finestre. La mia casa ne ha tante e il mio tetto è un cielo pieno di stelle. Ebbene sì, sono anche una romantica, come si evince dalla mie storie.

Veniamo a loro, ai miei romanzi. Le protagoniste dei miei libri sono ragazze, donne attraverso le quali io trovo una piccola forma di riscatto. Con loro io spero di trasmettere le mie emozioni a tutti i lettori e il mio invito a sperare. Tutto è possibile se ci si pone degli obiettivi, se si è determinati a raggiungerli e se si mette impegno e passione in ciò che facciamo.

Mia, in “Mai lontano da te” (il mio romanzo d’esordio) ed Eva in “Lasciami accendere le stelle” (dal 30 novembre in tutte le librerie e su tutti gli Store On-line), sono delle giovani eroine che combattono per vincere per primo una lotta con se stesse e poi con chi le vuole ostacolare, sminuire o sottomettere. Bisogna avere coraggio, autostima, amor proprio e spirito di sopravvivenza per dimostrare ogni giorno il proprio valore e pretendere quel rispetto che dovrebbe spettare di diritto ad ogni essere umano. Soprattutto alle donne (purtroppo temo che non smetteremo mai di batterci per i nostri diritti), ai bambini, ai più fragili o a chi non può difendersi da solo.

Credetemi non sono una femminista, è solo che confido molto nella forza delle donne! Amiche, figlie, madri, ritengo che posseggano le armi più potenti per rendere il mondo migliore. Empatia, sensibilità, dolcezza e gentilezza. Hanno il privilegio di dare voce al cuore e di far fiorire la vita.

Io scrivo, non solo come sfogo interiore e perché mi innamoro ogni volta che batto sui tasti del mio portatile, ma per dare consapevolezza e speranza a me stessa e a tutte le donne che come me credono nell’Amore Vero. L’unico fil rouge che, secondo mio modesto parere, può dare un senso a questa stupenda seppur limitata vita. “Limitata”, ci tengo a ribadire, perché non dovremmo dimenticarlo mai. È solo così che ci si può allontanare dalla presunzione di essere infallibili, individui superiori che credono di bastare a sé stessi, piuttosto che essere grati e umili.

La verità è una sola: siamo soltanto persone…, persone che abitano lo stesso mondo, che hanno bisogno le une delle altre e di avere fede.

Vi abbraccio una ad una e uno ad uno, care lettrici e lettori. Spero di incontrarvi tra le righe dei miei racconti.

Vi prego ditemi cosa ne pensate. Ci tengo davvero.

La mia pagina Instagram è daniela.paiella. Sono abbastanza attiva, anche se non pubblico ogni giorno, ma cerco di rispondere a tutti i messaggi.

Mi trovate anche su Facebook. Ho anche una pagina.

Vostra sempre grata

Daniela Paiella

 

 

 

 

 

 

 


Unire i puntini

Unire i puntini 

Idee e soluzioni creative che ci aiutano a vivere meglio

Inizia oggi questa piccola rubrica che parla di creatività e di come il pensiero creativo applicato a progetti abbia un enorme impatto sul mondo, tanto da fare realmente la differenza.

Cosa potete aspettarvi da Unire i puntini?

Dunque, iniziamo da una brevissima introduzione per aiutarvi a farvi un’idea sull’argomento di cui stiamo parlando perché mi rendo conto che sembra un discorso fazioso e un po’ aleatorio.
Henri Pointcaré, esimio scienziato e matematico francese vissuto circa due secoli fa (parliamo più o meno della fine del 1800) con il suo lavoro ci ha fornito lo spunto da cui è iniziato tutto. Fu proprio lui, un serio e metodico scienziato mentre era intento nei suoi studi, a produrre forse la più  famosa, quanto splendida, definizione di creatività che circola ancora oggi e viene insegnata nelle facoltà universitarie legate alla comunicazione.
Cito (anche se non letteralmente): ”La creatività è la capacità di unire elementi preesistenti in combinazioni nuove e che siano utili.”
Nuovo e utile, quindi. Ma secondo chi?
Ecco l’altro punto: “Il criterio intuitivo per riconoscere l’utilità della combinazione nuova è “che sia bella”. Mi inserisco per specificare che non stiamo parlando di una bellezza estetica, si tratta di bellezza da matematici, cioè un concetto più vicino a quello di armonia.

Oggi sappiamo che il livello di novità e utilità variano da progetto a progetto, ma questa definizione è rimasta una delle più citate e significative per spiegare a tutti cosa significa “essere creativi” e anche che la creatività non è affatto accessoria.

In onore del nostro Poincaré e anche di questa bellezza/armonia abbiamo scelto il titolo ”Unire i puntini” e in ogni puntata della rubrica racconteremo la storia di un’idea che nasce dalla creatività e fa realmente balzare in avanti la società e il mondo.
La Creatività funziona e per questo affidare un progetto a un professionista creativo  è sempre una buona idea.

Elisa Gattamorta


IL SOUTH ITALY INTERNATIONAL FILM FESTIVAL

Sin dalla nascita del cinema, Il cortometraggio è stato il genere comunicativo per eccellenza, utilizzato da tutti coloro che volevano sperimentare le affascinanti tecniche cinematografiche, prima di far spazio alle grandi e piccole opere del grande schermo.

Ma negli ultimi anni, il cortometraggio attira molti appassionati di cinema, giovani talenti, aspiranti registi, studenti delle accademie e diventa strumento per farsi conoscere e sperimentare.

Con lo scopo di promuovere e valorizzare i registi, le nuove generazioni con produzioni indipendenti e valorizzare il nostro territorio, il sud Italia e non solo, nasce il South Italy International Film Festival, prossimo alla sua II edizione, che si svolgerà in Puglia e precisamente a Barletta, città natale dell’ideatore, Giuseppe Arcieri, giovane regista esordiente.

La prima edizione ha riscosso un notevole successo, con una rassegna indipendente di cortometraggi che ne conta più di 400 provenienti da diverse regioni italiane, ma anche da Stati Uniti, Cina, Marocco, Russia, Spagna e Norvegia.

Produzioni originali realizzate con linguaggi di espressione diversi, che hanno toccato molte tematiche, divise in categorie e valutate da una giuria di esperti.

Passione, creatività, cultura e tanta voglia di mettersi in gioco, hanno caratterizzato la prima edizione ed è stata già una grande soddisfazione per l’organizzatore!

Per questa seconda edizione c’è dietro già una squadra a lavoro e tante sorprese ci aspettano!

Per il momento, vi segnalo la riapertura per le iscrizioni per la prossima edizione del festival, che si svolgerà probabilmente nella seconda settimana di maggio del prossimo anno.

 

Invito tutti i registi esordienti, e non, a iscrivere qui i vostri cortometraggi!

https://filmfreeway.com/SouthItalyInternationalFilmFestival

 

Seguite le pagine Instagram e Facebook per aggiornamenti e novità del festival!

https://www.instagram.com/south.ita.intern.filmfest/

https://www.facebook.com/SouthItalyInt.FilmFestival

Vincenza Dinoia


GIULIA MODELLA CORAGGIO

Ricordo ancora come è cominciato tutto: un dolore lancinante alla parte destra del viso, una paralisi facciale e poi la diagnosi, diritta come uno schiaffo: hai la nevralgia trigeminale.

Io, che ne ero totalmente all’oscuro di cosa fosse, decisi di volerne sapere di più e, così ho scoperto che in passato, veniva chiamata la malattia del suicida, proprio perché i pazienti, stremati dai continui dolori, decidevano di porre fine alle loro sofferenze.

Poi è arrivato l’intervento: quattro denti del giudizio sono stati rimossi dal mio cranio, uno dei quali stava tranciando in due il nervo trigemino dalla parte destra della mia mandibola.

Infine, è arrivata la consapevolezza di voler far conoscere al mondo cosa fosse questa patologia e, così, mi sono iscritta al casting per partecipare alla “Bodypositive Catwalk”, una sfilata in intimo basico creata dalla modella Laura Brioschi e Paolo Patria.

Quando sono stata presa non potevo crederci e sfilare in intimo con persone che magari soffrivano di altre patologie mi ha dato una forza incredibile: non ero più sola ed il pubblico ci applaudiva ed ascoltava le nostre storie!

Così, ho continuato anche su Instagram a parlarne e a diffondere il messaggio che le patologie croniche non devono fermarci dal goderci appieno la vita!

Nel mio profilo mostro il mio lavoro di modella, grazie al quale posso posare, sfilare e far vedere al mondo che nulla mi può fermare e nulla può abbattere il mio sentirmi bella e forte!

La mia community ha accolto i miei messaggi e mi sprona sempre a dare il meglio di me.
Sul mio account non condivido solo i momenti “patinati” cioè quelli in cui sono al top della mia salute, ma anche i momenti in cui la nevralgia si fa sentire e mi costringe, ad esempio, a stare a letto per alcuni giorni. Questa condivisione sia dei momenti positivi che di quelli negativi mi permette di far vedere una visione più realistica della vita e mi consente di mostrare che ci si può sempre rialzare quando si cade!

Giulia Gambini


Eterno Kolore, la collezione della Fashion Designer Giulia Ricci

Ciao a tutti…

Sono Giulia Ricci, ho 25 anni nata a Roma ma di origini pugliesi, sono laureata in Fashion Design all’Accademia Italiana di Arte, Moda e Design di Roma; sono figlia unica e ho perso mio padre in tenerissima età. Sin da piccola mi sono sentita diversa rispetto ai miei coetanei a causa della mia forte sensibilità che avevo e che ho tutt’ora. Una sensibilità che mi ha portata negli anni a superare tanti ostacoli, fino ad arrivare alla moda che è stata la mia luce in fondo al tunnel. Ed è proprio grazie alla mia sensibilità che ho dato vita al mio progetto.

Prima di raccontare la mia storia, devo fare una piccola ma importante premessa a cui tengo molto e sulla quale spero possiate riflettere tutti, parlandovi della dedica all’interno della mia tesi:
“Ad una grande Donna del Sud, mia madre…”, ciò vi aiuterà a capire la donna che sono oggi. Ho voluto sottolineare del Sud, perché mia madre è nata in un piccolo paese della provincia di Foggia in Puglia e che, tanti anni fa, ha avuto il coraggio di andarsene da sola, lasciare la sua famiglia, i suoi affetti e i suoi ricordi per trasferirsi a Gorizia dopo un concorso vinto al Ministero dell’Interno, per poi trasferirsi definitivamente a Roma e iniziare così la sua nuova vita, attraversando e riuscendo a superare da sola momenti difficili. Cosa mi ha insegnato? Beh, mi ha insegnato innanzitutto l’intraprendenza, l’amore, l’educazione, la tenacia e il rispetto, trasmettendo i sani valori e indicandomi sempre la giusta via da seguire. Mi ha sempre permesso di inseguire i miei sogni senza mai farmi arrendere. Sin da piccola, mi ha sempre raccontato che se avesse avuto una figlia/o, il suo sogno più grande sarebbe stato quello di vederla/o realizzata/o e che tutti i suoi sacrifici, li avrebbe fatti per dare un futuro migliore a sua figlia/o; e soprattutto, di avere sempre il coraggio di andare avanti, proprio come lei. Ed è così che oggi – grazie ai suoi insegnamenti – sono la donna che sono, forte e determinata. Lei, la colonna portante della mia vita!

L’idea di realizzare il progetto tesi “Adaptive Fashion & Sindrome di Down: la moda flessibile che include” nasce da un’importante esperienza fatta come volontaria nell’ambito della “Clownterapia” presso il Policlinico Umberto I di Roma. Ciò mi ha fatto scoprire di avere una sensibilità spiccata in una società sempre più competitiva. Sposare una causa che avesse come obiettivo quello di sensibilizzare l’opinione pubblica e di creare un progetto formativo teso all’inclusione sociale della persona con Sindrome di Down; comunicando attraverso i suoi linguaggi, un messaggio di bellezza, diversità ed unicità.

Creare, quindi, una moda inclusiva che possa vestire qualsiasi tipo di fisicità. La chiave è trovare l’unicità di ogni storia. Da qui, l’idea di creare una collezione per ragazzi con Sindrome di Down al fine di sdoganare lo stereotipo e dare importanza all’unicità e all’eleganza che anche questi ragazzi posseggono.

All’inizio mi sono chiesta come fare, perché non avevo né mezzi, né strumenti. Poi ho capito che era di persone che stavo parlando e quindi ho dimenticato la disabilità. Quello che leggerete è frutto della mia esperienza personale e dei miei piccoli ma grandi traguardi. Il viaggio è stato intenso, condividendo nel corso del tempo esperienze e progetti con tante persone incontrate in questo percorso, ognuna delle quali mi ha insegnato qualcosa di diverso. Ho desiderato rendermi utile.

Ho iniziato a rendermi utile, creando il questionario online in forma anonima inviato a tutte le sedi dell’AIPD e altre associazioni come l’AS.SO.RI Onlus di Foggia, dove agli utenti è stato chiesto di rispondere alle domande formulate; una ricerca che ha rappresentato l’inizio di uno studio sul

territorio nazionale, finalizzata a raccogliere informazioni direttamente dai soggetti interessati. Ciò ha permesso la conoscenza sul piano reale delle necessità e delle risorse. Perché conoscere significa dare voce, bisogna ascoltare per riuscire a cambiare. Il settore della moda, con il grande potere sociale di cui dispone, può proporre un profondo cambiamento.

Passaggio successivo, è stato il primo articolo di “Moda Inclusiva” sul giornale Tiburno.tv di Roma, sensibilizzare l’opinione pubblica sull’inclusione sociale della persona con Sindrome di Down. Successivamente, il secondo articolo di “Fashion & Sindrome” sempre sul giornale Tiburno.tv di Roma, che parla di moda colorata e inclusiva con modelle uniche e spontanee.

Ho proseguito cercando di rendermi utile, in occasione della Giornata Mondiale della Sindrome di Down del 21/03/2022. La campagna AIPD Nazionale “inclusione significa esserci”, ha pubblicato la mia storia di “ordinaria inclusione”.

Con la creazione del Fashion Show intitolato “Nuovo Mondo”, il final show di Accademia Italiana presso Altaroma il 4/02/2022, ha voluto simboleggiare la ripartenza, e come la collezione ha raccontato l’unicità come valore e non come limite. Eterno Kolore è la collezione della stilista Giulia Ricci, fatta di abiti trasformabili e morbidi kimono con ricami naïf, che parla di inclusione e lotta ai pregiudizi. L’esperienza durante e prima della sfilata, è stata davvero entusiasmante. Proprio le ragazze a cui si dice che non diventeranno mai modelle, sono il mio punto di riferimento e con loro ho voluto dimostrare che non esiste un solo tipo di bellezza, perché la diversità è bellezza. Chi siamo noi per definire la bellezza? Mi hanno insegnato come si può essere unici nel nostro modo di essere, e come in quella passerella le ragazze sono riuscite a trasmettermi un messaggio forte e chiaro di bellezza e spontaneità. E’ stato un sogno, volevo che quella passerella fosse unica proprio come la mia collezione Eterno Kolore e ci sono riuscita; portando con grande orgoglio, amore e dedizione una collezione elegante, creativa ed unica che duri per sempre.

Infine, ho proseguito creando il mio ultimo shooting sempre della mia collezione con i ragazzi con Sindrome di Down e non, e con il prezioso aiuto dei loro genitori, che si sono divertiti tanto. E questa, credo sia la cosa più bella e gratificante. La mia più grande soddisfazione sono loro!

Pertanto, ho capito che la moda è la mia strada e che le mie doti comunicative e relazionali insieme al sociale, mi hanno dato modo di creare la mia pagina social di Instagram e Facebook
@liamodainclusiva. Un brand di moda inclusiva con l’obiettivo di sensibilizzare per guardare al futuro, alle uguaglianze e ad una comunicazione più libera possibile da stereotipi e preconcetti.

Una moda che possa vestire qualsiasi tipo di fisicità della persona, per una integrazione sociale ad ampio spettro. La filosofia del brand, è quella di creare un codice etico che ha come valore principale quello umano, senza alcuna forma di discriminazione ma facendo dell’unicità di chi viene definito “diverso”, il nostro “punto di forza”. Creare un mondo autentico e libero, tutti sono al centro di tutto.

Il brand è un connubio tra moda inclusiva e tecnica del ricamo per esprimere con la potenza dei colori e dei materiali, le storie che di volta in volta saranno raccontate attraverso le collezioni. Un vero e proprio “storydoing” (l’arte del narrare attraverso i fatti) social – etico – responsabile, nuove azioni e nuovi patti di relazione che vadano al di là delle promesse delle pubblicità per proporre una nuova moda e nuovi corpi che non rientrano nei classici stereotipi di bellezza. La diversità è motore di crescita, trasformazione e nuove prospettive.

Continuerò ad occuparmi di diversità e inclusione, ho già la mia community attiva di ragazzi e genitori che pian piano sta aumentando sempre di più; di questo, ne vado fiera perché l’obiettivo è quello di comunicare qualcosa di grande, di importante e di concreto. Un lavoro enorme che mi ha portata a scoprire nuove realtà, ad approfondire nuove tematiche, a sbagliare, a cadere e a rialzarmi. Non ho mai mollato, anzi ogni giorno sono sempre stata più interessata a ciò che stavo facendo. La mia motivazione cresceva, gli ostacoli sono diventati occasioni in più per approfondire il tema. Affrontando tutto questo a testa alta! Ad oggi, posso dire di essermi guadagnata un pezzo della mia strada, certamente c’è ancora tanto da percorrere; continuerò ad inseguire il mio sogno, ossia, dare una mano a chi quasi sempre, resta fuori.

Tutto ciò, sta dando un senso alla mia vita e mi sta aprendo nuovi scenari, che non intendo farmi sfuggire. Non mi arrenderò e non mi scoraggerò! E’ una rivincita personale dimostrare a chi non ha creduto in me, e uno sprone per chi può trovarsi nella mia stessa situazione.

Orgogliosa di essere un esempio di inclusione reale!

Giulia Ricci